IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO: COME ITALO CALVINO PARLA DI RESISTENZA AI SUOI LETTORI.

 


Con la sua ironia pungente e dissacrante, Italo Calvino con il suo Il sentiero dei nidi di ragno edito da Mondadori, regala ai lettori un testo che più che presentarsi con le caratteristiche proprie di un romanzo è modellato sulla falsariga di una lunga novella, cruda, poco romantica e priva di infiorettature stilistiche.

L’io narrante in terza persona delinea personaggi ambigui, rozzi, dai tratti persino animaleschi imbruttiti dalla fame e dalla miseria.

Pin è solo un bambino quando la guerra “accade” e si trova a farvi i conti e a doverci abitare dentro. A badare a lui c’è solo sua sorella più grande, la quale, per riuscire a sopravvivere alle ire nere del conflitto mondiale, si prostituisce con regolarità esasperante. La Nera di Carrugio Lungo, come la chiamano tutti, non ha tempo per dedicarsi al fratello minore che non fa altro che bighellonare per le strade della città vecchia. Senza guida e senza parenti, Pin si ritrova solo e sperduto nel mondo dei grandi che non può accettarlo come suo pari. Al contempo, il bambino prova disagio ad accostarsi ai suoi coetanei i cui giochi lo annoiano troppo presto. Pin è una piccola meteora piena di luce e di fuoco vivo: solca l’uno e l’altro cielo senza mai riuscire a trovare un porto celeste che lo faccia sentire veramente al sicuro e benvoluto.

Gli uomini dell’osteria che è solito frequentare si divertono al suono dei suoi stornelli intonati con quella «voce rauca da bambino vecchio» e ridono del suo linguaggio velenoso, sboccato e irriverente. Però, non appena i discorsi divengono troppo difficili, lo scacciano malamente rispedendolo al nido casalingo che sua sorella ha trasformato in una casa di tolleranza.

Eppure, nonostante venga spesso allontanato Pin, come un menestrello squattrinato senza arte né parte, finisce sempre per ritornare nella stessa squallida stamberga. Un poco perché non ha nulla di meglio da fare, un poco perché lì, in mezzo a gente poco raccomandabile, sente di poter essere se stesso.


«I grandi sono una razza ambigua e traditrice, non hanno quella serietà terribile nei giochi propria dei ragazzi, pure hanno anch’essi i loro giochi, sempre più seri, un gioco dentro l’altro che non si riesce mai a capire qual è il gioco vero».

Un giorno come un altro, per sentirsi parte di questa umanità estraniante e variopinta che vorrebbe combattere contro l’invasore germanico, ma poi non ne ha né la forza e né la volontà, Pin viene convinto a mettere a segno un colpo che gli permetterà di guadagnare la stima di tutti: sottrarre una pistola P38 al soldato tedesco che da diverse notti si intrattiene con sua sorella. Mentre la coppia è impegnata in atteggiamenti amorosi, Pin riesce a rubare l’arma senza difficoltà  e si precipita all’osteria per mostrarla ai presenti i quali, tuttavia, sembrano aver cambiato idea e farneticano strane parole sconosciute alle sue orecchie.

Preso dalla collera per essere stato ingannato vilmente e per aver rischiato di essere scoperto, il bambino decide di tenere la pistola tutta per sé e la sotterra in un luogo in aperta campagna «dove fanno il nido i ragni» che solo lui conosce. Sulla via del ritorno, però, i soldati tedeschi insospettiti dal cinturone della pistola che Pin va  sbandierando come un trofeo, lo arrestano e lo rinchiudono in prigione senza risparmiargli botte e insulti di ogni genere.

È in questo luogo lugubre e pieno di uomini le cui fattezze sono ridotte a oscene maschere (come Pietromagno il maestro ciabattino che Pin aiutava), che il bambino fa la conoscenza di Lupo Rosso, uno dei membri del SIM, il servizio informazioni militari italiano. I due legano subito e si determinano a fuggire assieme quanto prima possibile. Complice l’assoluta incapacità delle guardie tedesche, la rocambolesca evasione si concretizza dopo pochissimo ed entrambi riescono a trovare rifugio nelle campagne.

Intanto, la voce della Resistenza chiama e Lupo Rosso, combattente indomito e fedelissimo alla causa, non può permettersi di rallentare le proprie ambizioni per colpa di un bambino, così, con la scusa di doversi allontanare per esplorare il territorio, lo abbandona. Esattamente come Lupo Rosso, però, anche Pin non ha intenzione di perdere tempo. Con il modo che è tipico solo dei bambini mossi dalla curiosità dell’età bella, riprende il cammino in solitaria ritrovando la strada dei nidi di ragno e controllando che la P38 si trovi ancora al suo posto. I morsi della solitudine e della paura però, avanzano come lava lungo le pendici di un vulcano e, per qualche momento, Pin si abbandona allo sconforto.



«Ma il pianto già lo raggiunge, e annuvola le pupille e inzuppa le vele delle palpebre; prima pioviggina silenzioso, poi scroscia dirotto con un martellare di singhiozzi su per la gola».


Proprio mentre tenta disperatamente di mettere a freno i singhiozzi che gli squassano il petto, il bambino si imbatte in un altro membro della Resistenza: un omone baffuto dalla «faccia camusa come un mascherone da fontana». L’uomo, mosso a compassione da quel piccolo fagotto e udito pronunciare dalle sua labbra il nome di Lupo Rosso, decide di portare Pin con sé all’accampamento dove è solito sostare.

In mezzo alle colline alberate, a metà tra sogni proibiti «rari e corti» e una realtà amarissima e crudele intrisa di sangue e sacrificio, il bambino conosce altri personaggi che non fanno altro che arricchire le pagine de Il sentiero dei nidi di ragno con aneddoti, battute spiritose e sistemi armati di sopravvivenza.

Calvino li costruisce a mestiere, con meticolosa attenzione, così da fare in modo che in ognuno di essi siano rintracciabili più vizi che virtù tipicamente umane: l’accidia del Dritto cozza con il sangue freddo dei quattro cognati calabresi; la bellezza sfiorita di Giglia si ravviva un poco se accostata all’aspetto trasandato di  Zena il Lungo detto Labbra – di – Bue; la pusillanimità di Mancino stona se confrontata con il coraggio quasi indifferente di Cugino, l’omone baffuto.

Purtuttavia, in questo quadro scolorito di spiriti meschini e perduti, l’Autore muove le fila di altri due personaggi chiamati a giudicare sull’inettitudine del Dritto, probabilmente i “veri” adulti così come li qualifica anche Cesare Pavese nella superba postfazione del testo: il comandante Ferriera, fedele ai propri principi e il commissario Kim, lucidissimo nella propria lungimirante analisi bellica di bene e male. Nelle loro voci si coglie appieno il desiderio del riscatto umano e dall’affrancazione dalla dittatura, della tragedia della guerra, dell’analisi tecnica e implacabile delle formazioni dei corpi della Resistenza. La coppia si presenta quasi al termine del racconto come fosse un’apparizione riempitiva, persino inutile, invece, è capace di rendere la storia ancora più viva e dura, più reale e mistica.


«Ferriera mugola nella barba: - Quindi, lo spirito dei nostri… e quello della brigata nera… la stessa cosa?...

-La stessa cosa, intendi cosa voglio dire, la stessa cosa… - Kim s’è fermato e indica con un dito come se tenesse il segno leggendo; - la stessa cosa ma tutto il contrario. Perché qui si è nel giusto, là nello sbagliato. Qua si risolve qualcosa, là ci si ribadisce la catena».

E così, quando la battaglia ormai imperversa e infuoca ogni dove della montagna, si scorge ancora un bambino di nome Pin che vorrebbe diventare adulto di colpo «per essere cattivo con tutti, vendicarsi di quelli che non sono stati buoni con lui»; si distingue un omone di nome Cugino che s’interessa dei nidi di ragni e al quale Pin ha prestato la sua pistola P38; si ode uno sparo che, echeggiando nella notte tetra della città vecchia, fa tremare i polsi.

Ancora una volta, Calvino offre ai lettori un’opera pura, piena di simbolismi e significati capace di gettare luce su sentieri storici impervi e sempre piuttosto controversi (aggiungo, sempre più dimenticati) come quelli percorsi dalla Resistenza italiana.

L’Autore si serve di una prosa schietta dalla penna tagliente. Non lesina un linguaggio rozzo, semplice, a tratti addirittura volgare, ma in questo “linguaggio da osteria” è capace di condensare tutto ciò che ha realmente caratterizzato quegli anni. Calvino non edulcora, non adorna, non cerca bellezza dove non può esisterne. Pronuncia verità brucianti e cattive e crea voci sinistre che si muovono di notte lungo viottoli di campagna trasmettendo al lettore un vago senso di terrore. Tutto il corollario coloratissimo dei personaggi che anima il volume non è concepito come una fitta maschera pirandelliana: non fingono, sono tragicamente veri, attori consapevoli di un momento storico macchiato dal sangue di milioni di persone innocenti.

Il protagonista, Pin, è lontano dall’idea di politicamente corretto. Non è un bambino ingenuo e senza alcuna malizia. Anzi, possiede la sfrontatezza del capriccio, l’ansia febbrile dell’essere accettato dal gruppo ad ogni costo, il desiderio sottaciuto di occupare un proprio posto nel mondo. Eppure, l’immagine finale di un uomo che prende per mano un bambino e che Calvino tratteggia come una visione offuscata dalla prima nebbia dei mesi freddi, riassume tutto il senso della nostra esistenza: la solitudine è sentimento che non si confà all’essere umano il quale, anche nei momenti più bui e tormentati, ha necessità di ancorarsi a qualcosa che riporti all'incanto della bellezza e della benevolenza terrena.

Ilina Sancineti

 

 

 

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