IL CONTE DI MONTECRISTO: PER UMBERTO ECO IL ROMANZO PIU' APPASSIONANTE DI SEMPRE, MA QUELLO SCRITTO PEGGIO.

 


Umberto Eco ha definito Il conte di Montecristo di Alexandre Dumas come il “romanzo più appassionante di sempre”: si tratta senza dubbio di un’opera letteraria monumentale per la costruzione impareggiabile del protagonista, Edmond Dantès, e per tutto il corollario di azioni e reazioni che scaturiscono dalla sua personale vendetta.

Sì, la vendetta: le oltre mille pagine del volume sono pervase da questo atavico sentimento e risultano incentrate sulle machiavelliche trame ordite dal giovane marinaio Dantès a danno dei suoi temibili nemici.

La vicenda incomincia il 24 febbraio 1815, quando Edmond, a bordo della nave Pharaon, giunge nel porto di Marsiglia dopo lunghi mesi trascorsi in mare. È un marinaio appena diciannovenne rispettoso dell’altrui ruolo, privo di ambizioni sebbene piuttosto capace. Prova una devozione sconfinata per suo padre e nutre profonda stima e gratitudine per il suo armatore, il signor Morrel. Inoltre, è perdutamente innamorato della sua fidanzata, Mercédès, la catalana “dai capelli corvini e gli occhi vellutati da gazzella”, con la quale ha intenzione di costruire un avvenire semplice e sereno. Il fato sembra premiare la sua purezza di spirito poiché Morrel decide di promuoverlo capitano del Pharaon subito dopo la morte del suo predecessore avvenuta proprio durante l’ultima traversata.

Oscure ombre, però, tramano in gran segreto ai danni del giovane: si tratta di Danglars, contabile del Pharaon e invidioso del suo successo professionale e del rivale in amore, Fernand Mondego, che tenta diverse volte di circuire Mercédès la quale, tuttavia, si mostra del tutto disinteressata alle sue insidiose profferte.

La luce che Edmond irradia attorno a sé getta lunghe tenebre negli animi di Danglars e Mondego che, con la complicità dell’ignavo oste Caderuosse e sfruttando un compromettente messaggio contenuto in una missiva che il precedente capitano aveva affidato proprio a Edmond prima di spirare, redigono una lettera indirizzata al procuratore del re. In essa il diciannovenne viene ingiustamente accusato di essere un agente bonapartista a servizio dell’esiliato Napoleone Bonaparte. Ignaro del crimine che si sta consumando alle sue spalle, intanto, a Dantès divenuto ufficialmente capitano del Pharaon, non resta altro da fare se non coronare il suo sogno d’amore con la splendida catalana. Ma, proprio durante la festa che celebra il fidanzamento tra i due, viene frettolosamente arrestato. 

A giudicarlo è il sostituto procuratore del re in persona, il terribile Villeforte, uomo tutto d’un pezzo, desideroso di accrescere la propria fama e ascendere ai ruoli superiori della giustizia francese. Villeforte esaminata la posizione del ragazzo, dopo alcune reticenze iniziali, si vede costretto a giudicarlo colpevole: la lettera in possesso di Dantès, infatti, è destinata a suo padre, il signor Noitier che si è ritirato a Parigi e congiura contro il re per restituire a Napoleone Bonaparte il suo trono. Per sfuggire alla vergogna che una simile notizia potrebbe gettare sulla sua ascesa politica e sull’irreprensibilità della sua persona, Villeforte condanna Dantès a marcire nella terribile prigione del castello d’If. 


In quel luogo senza luce e senza speranza, l’ignaro Edmond «dimenticato in una cella, attraversò tutte le gradazioni dell’infelicità»: perde la propria identità divenendo solo il numero 34, prega, spera, smette di nutrirsi desiderando la morte. Eppure, dopo quasi quattro anni di tremenda segregazione, proprio mentre sta definitivamente abbandonandosi nelle braccia della Mietitrice, un inatteso rumore proveniente da una cella adiacente lo fa sobbalzare: «era un grattio regolare, che pareva dovuto a un artiglio enorme o all’azione di un qualche strumento sulla pietra».

Quel suono gli restituisce un barlume di lucidità in grado di sostenere il suo dolore fino a quando, finalmente, creando con pazienza certosina una piccola breccia nelle mura impenetrabili della fortezza, ha modo di conoscere l’ospite della cella di fianco: si tratta del numero 27, l’abate Faria, un italiano che tutti considerano folle per le sue farneticazioni in merito all’esistenza di un tesoro che potrebbe rendere ricco il fortunato scopritore. Grazie alle acute rivelazioni del saggio abate, Dantès riesce a scoprire la motivazione della sua ingiusta detenzione e a risalire ai suoi autori: Danglars, Mondego e Villeforte.

 




«Mi fa venire i brividi», disse Dantès. «Ma allora il mondo è popolato solo da tigri e da coccodrilli?». 

«Sì, solo che quelli con due zampe sole sono ancora più pericolosi».

 

A questo punto, il desiderio di rivalsa s’impossessa del marinaio che, assieme all’abate, incomincia a escogitare un piano per fuggire dalla prigione. Trascorrono lunghi anni, durante i quali Edmond apprende ogni genere di arte: l’abate lo istruisce ricorrendo a tutto lo sterminato sapere a sua disposizione in modo da forgiarlo e prepararlo ad affrontare il nuovo mondo che gli si aprirà davanti al momento dell’evasione. Inoltre, consapevole di essere ormai al termine dei suoi giorni, gli svela le coordinate precise per giungere all’isola di Montecristo che custodisce nelle sue naturali viscere l’antico e sconfinato tesoro degli Spada. Proprio quando la salvezza sembra essere a un passo per entrambi, l'abate Faria muore. Rimasto solo e disperato, Edmond ha due scelte: perire oppure tentare di sopravvivere. A quel punto, si risolve a sostituirsi furbescamente all’abate che tanto lo aveva supportato. Ed è così che le guardie della prigione ritenendo di offrire riposo eterno ad un prigioniero, finiscono per restituire la libertà ad uno ancora in vita. Scaraventato nelle tumultuose acque che lambiscono il castello d’If, dopo quattordici anni, Dantès rivede la luce pulsante delle stelle.



«Quella solitudine era popolata di pensieri, e la notte rischiarata di illusioni, e il silenzio animato di promesse».

 


Questo punto della narrazione costituisce un vero e proprio spartiacque tra un prima e un dopo, tra la personalità docile dell’innocente e puro pescatore Edmond Dantès e quella forte del misterioso e ricchissimo conte di Montecristo. Dantès, infatti, grazie all’amicizia del contrabbandiere corso Jacopo che lo ha soccorso in mare, riesce a impossessarsi delle ricchezze degli Spada, cambia la propria identità e incomincia a ordire le trame della sua rivincita.

Per stabilire in che direzione muoversi, si reca nella vecchia locanda di Caderousse e, fingendosi un frate e corrompendolo con la dazione di un prezioso diamante, riesce a carpire dolorose informazioni: suo padre è morto di stenti e tristezze; Morrel, il suo armatore, ha perduto quasi tutte le navi di sua proprietà ed è sull’orlo del fallimento; Mercédès  è andata in sposa a Fernand Mondego (col quale ha concepito un figlio) che, nel frattempo, ha assunto il titolo di conte de Morcef grazie ad alcuni servigi militari prestati alla nazione; Danglars è diventato un ricco e stimato banchiere; mentre Villeforte, anche lui divenuto benestante grazie ad un matrimonio di convenienza, non si trova più a Marsiglia in quanto nominato procuratore del re.



«A volte ci sembra che Dio ci abbia dimenticati, quando la giustizia riposa. Ma arriva sempre il momento in cui si ricorda…»



Apprese queste amare notizie, il conte di Montecristo decide di passare all’azione. Incomincia da Morrel: come un benefattore particolarmente ossequioso estingue tutti i debiti che ha contratto, rimette in mare il Pharaon che era andato distrutto nel corso di una traversata difficile e, così facendo, salva la sua vita prima che venga spezzata da un colpo di pistola alla tempia.

Ricompensati i buoni, giunge l’istante di castigare tutti gli altri. Venuto a conoscenza che Albert, figlio di Mercédès  e Fernand, si trova in Italia assieme all’inseparabile amico Franz, riesce a fare in modo di incontrarlo facendosi trovare nello stesso palazzo in cui i ragazzi sono ospiti e mostrandosi gentile, affabile e pronto ad affrontare per il loro bene qualsiasi rischio. Persino quello di liberare Albert dai briganti capitanati dal terribile Luigi Vampa, il quale, in debito con il Montecristo, si offre di inscenare un finto rapimento del giovane durante il carnevale che si sta svolgendo a Roma in quei giorni. Conquistata in questo modo la piena fiducia del visconte de Morcef, Montecristo è invitato dallo stesso a Parigi e presentato a tutta l’alta aristocrazia francese. La sua presenza non può essere ignorata in alcun modo: Montecristo è un uomo pieno di fascino e di mistero, sapiente come pochi e, soprattutto, ricco oltre ogni dire. Nulla passa inosservato della sua persona, soprattutto se a osservarlo attentamente è la contessa de Morcef: l’incontro tra gli antichi innamorati appare a tratti drammatico. Pur celando la sua vera identità, Montecristo fa fatica a restare impassibile dinanzi alla beltà un poco sfiorita di Mercédès, la quale, dal canto suo, sembra aver colto all’istante il segreto celato dall’enigmatico nuovo amico di suo figlio.

Altri inconfessabili segreti, nel frattempo, si disvelano alla luce del mattino. Uno tremendo, in particolare, è quello custodito nel grande palazzo di Auteuil che Montecristo ha scelto come sua dimora provvisoria e che viene a galla attraverso i racconti del fedele servitore Bertuccio. In quella casa maledetta dal cielo, anni prima, si è consumato un crimine mostruoso: la tentata uccisione di un neonato ad opera di Villeforte. Per un fantasioso gioco del destino, quell’infelice non morì soltanto perché lo stesso Bertuccio lo salvò dalla sua orribile sorte allevandolo come un figlio e dandogli il nome di Benedetto.

Si è già detto della ricchezze del conte. Ebbene, le stesse finiscono con l’attirare l’attenzione del barone Danglars che, avarissimo di natura, cade dritto nella trappola che Montecristo ha preparato apposta per lui. Il facoltoso gentiluomo si presenta infatti a suo cospetto come potenziale cliente e chiede di aprire un credito illimitato presso la sua banca millantando garanzie che sembrerebbero essere molto verificate. Ma nella ragnatela dell’antico marinaio creduto morto da tutti, finisce anche Villeforte: uno dei servi di Montecristo, infatti, salva la vita alla sua seconda moglie, Héloïse, e ciò lo costringe a incontrarlo per ringraziarlo e ad avere con lui uno scambio interlocutorio piuttosto singolare. Come tutti, la donna è affascinata dalla figura austera di Montecristo ma, ad attirare la sua curiosità, è la conoscenza della chimica che l’uomo dimostra di padroneggiare alla perfezione e grazie alla quale è capace di creare medicamenti salvifici e, al tempo stesso potenzialmente mortali. Da questo incontro, non a caso, scaturirà una lunga serie di inspiegabili lutti che andranno a colpire la famiglia Villeforte.


«L’uomo sarà perfetto solo quando saprà creare e distruggere come Dio; sa già distruggere, siamo a metà strada».

 

In questo articolato intreccio di situazioni e personaggi il lettore non può restare indifferente alle altre piccole storie che si innestano su quella principale come fossero succulenti piccoli rami la cui unica incombenza è quella di portare linfa nuova al proprio tronco: Dumas, infatti, illustra senza risparmiare i dettagli, la storia del brigante romano Luigi Vampa; racconta dell’amore tormentato tra Maximilien Morrel (figlio dell’armatore Morrel) e Valentine (figlia di Villeforte); dell’amicizia libera e spregiudicata tra Eugénie (figlia di Danglars) e la signorina d’Armilly (sua maestra di musica), gli inganni, i vizi, la riabilitazione e il definitivo crollo umano del giovane Benedetto. Ancora, narra la vicenda insanguinata della tristissima Haydée, figlia di Alì Pascià, sultano tradito da chi riteneva amico e brutalmente assassinato. La bellissima ragazza, comprata dal conte come schiava ma, in verità, salvata dall’abisso dell’oblio e dell’umiliazione, viene mostrata ai parigini nelle vesti di regina, riempita di accortezze e lusso e rassicurata sul fatto che, grazie alla preziosa intercessione del suo salvatore, otterrà giustizia per vendicare il nome della sua famiglia.

Tra unioni combinate per interessi e poi saltate, morti inspiegabili e passioni veementi, come un enorme vaso di Pandora, uno a uno, tutti i misfatti degli antagonisti vengono alla luce: le speculazioni borsistiche e la corruzione di Danglars e della frivola moglie Hermine finiscono per ridurli disonorati e sul lastrico;  la vergogna per la scoperta pubblica del tradimento amicale e il conseguente abbandono di Mercédès  e Albert costano la vita a Fernand Mondego; il suicidio di Héloïse per i crimini di cui si è macchiata a danno della propria stessa famiglia sono cagione della follia di Villeforte.



«Le ferite morali possono venire nascoste, ma non si richiudono mai; sono sempre dolorose, e sempre pronte a riaprirsi al minimo tocco. Nel cuore restano vive, spalancate».

 


Nonostante il lutto, la tragedia e la brutalità umana connotino buona parte del romanzo, è innegabile che alcuni sprazzi di colore gettino chiarori soffusi sull’intera opera che si conclude con la redenzione del protagonista il quale, dopo aver assistito alle efferatezze che egli stesso con le sue macchinazioni è riuscito a riesumare, comprende di non poter sostituire il proprio potere a quello della Provvidenza, lascia che Mercédès segua la strada che ella stessa ha scelto e si abbandona all’amore professatogli da Haydée e alla prospettiva di una nuova vita gioiosa assieme a lei.



«Chissà se li rivedremo,» disse Morrel, asciugandosi una lacrima.

«Amore mio», disse Valentine, «il conte ce l’ha appena detto. Aspettiamo, e speriamo!»

 

 

All’inizio di questo scritto, si diceva che Umberto Eco ha qualificato Il conte di Montecristo come un romanzo appassionante. Chi scrive, tuttavia, non vuole tralasciare l’altra considerazione, quella più scomoda: Eco lo ha definito anche come "quello scritto peggio". Ciò è vero nella misura in cui Dumas si sofferma spesso sulla descrizione di particolari ridondanti, talvolta superflui e del tutto inutili, su “vicende extra vicenda” che, sulla falsariga della narrazione manzoniana (è del 1842 la pubblicazione dell’ultima revisione de I promessi Sposi e del 1846 quella de Il conte di Montecristo), invero, ne costituiscono un abbellimento forse troppo ampolloso. Inoltre, numerose sono le endiadi, le ripetizioni, le annotazioni non necessarie. Ciò, probabilmente, è legato anche alla natura originaria dell'opera. Deve ricordarsi, infatti, che Il conte di Montecristo nasce come pubblicazione "a puntate", non già come romanzo. Eppure, nonostante i difetti stilistici segnalati, la scrittura di Dumas non manca di stupire i propri lettori con colpi di scena incredibili, non è mai pretenziosa (salvo in alcuni brevi momenti) e a tratti scivola nella poesia. Particolarmente apprezzabili sono i frequenti riferimenti alla cultura latina e greco-romana, alla filosofia, ai tecnicismi della chimica degli elementi che manifestano il grande studio che ha condotto alla realizzazione del testo. Si tratta di un volume molto impegnativo, un grande classico che merita di essere letto almeno una volta nella vita e che, ad ogni modo, renderà di certo felici i lettori.

Ilina Sancineti

 

 


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