GENTE DI DUBLINO DI JAMES JOYCE: LA NEGATIVITA' DELL'IMMOBILISMO MORALE E MATERIALE.

 

Nel suo scritto I barbari. Saggio sulla mutazione, Alessandro Baricco sostiene: «È un viaggio per viandanti pazienti, un libro».

Viandanti che non hanno mire corsare da conquistatori e che intendono raggiungere orizzonti sconosciuti godendosi i percorsi, le albe ed i tramonti, saggiando la consistenza dell’aria dei luoghi nei quali transitano, deliziandosi dei piccoli momenti di finissima grazia che connotano le quotidianità del mondo.

Viandanti lenti, ma non pigri. Indaffarati, ma mai sopraffatti dalla corsa infaticabile delle ore, dei giorni, degli anni.

L’aforisma dello scrittore torinese si sposa perfettamente con il contenuto del volume Gente di Dublino di James Joyce, edito da Feltrinelli, un vero e proprio spaccato della realtà sociale che nei primi del Novecento caratterizzava l’uggiosa capitale irlandese.

Tra le pagine dei quindici racconti che compongono il testo si muove sinuosa una miriade di stravaganti personaggi, le cui vite non s’intrecciano mai le une alle altre trattandosi di storie perfettamente indipendenti, seppure per certi versi accumunate da infausti presagi di fallimento, quasi a richiamare l’amaro negativismo di Charles Baudelaire: «Questa vita è un ospedale dove ogni malato possiede il desiderio di cambiar letto».

Le vicende sono costruite dall’autore appositamente sui generis tanto da apparire agli occhi dei lettori del tempo, arditi, provocatori, dissacranti, addirittura rivoluzionari e che valsero all'anticonformista Joyce ben diciotto rifiuti da diverse case editrici. Solo dopo molti anni di travagliata attesa, grazie all’impegno di un editore visionario, tal Grant Richards, alla caparbietà dello scrittore (che inviò una missiva accorata persino a re Giorgio V sottoponendogli alcuni passaggi del volume particolarmente contestati dagli editori che lo accusavano di essere anti irlandese) e allo straordinario successo di pubblico, Gente di Dublino non solo vedrà la stampa (giugno 1914), ma verrà inserito a pieno titolo tra i capolavori della letteratura moderna.

I racconti in parola analizzano con spregiudicata freddezza due dei più pressanti mali dell’epoca: il primo, la quasi totale immobilità del tessuto sociale, da attribuirsi prevalentemente ad una superatissima forma mentis imposta per buona parte dalla rigidità delle credenze religiose e dal bigottismo consolidato del buon costume della decadente nobiltà irlandese. La seconda, la conseguente fuga da una realtà apatica e staticamente noiosa, la quale, tuttavia, non si traduce mai in un fruttuoso atto di ribellione, bensì in un triste nulla di fatto per i protagonisti i quali, o per propria volontà o per imposizione altrui, finiscono irrimediabilmente per accontentarsi di ciò che possiedono. Questi ultimi, infatti, spesso restano imprigionati in esistenze malamente vissute ( Le sorelle, Pensione di famiglia, Una piccola nube, La Grazia), oppure si ritrovano invischiati in episodi di feroce (e solo parziale) riscatto da uno stile di vita scialbo e senza aspettative (Due galanti, Conti pari, Un increscioso incidente, Il giorno dell’Edera nella sede del comitato, Una madre), infine, si abbandonano a velate e cupissime riflessioni sulla morte (Argilla, I morti) che trasmettono al lettore un soffocante senso di smarrimento e frustrazione.

Ed in effetti, è proprio l’ultimo racconto di Joyce, I morti, a costituire una vera e propria pietra miliare dell’intera raccolta capace di conferire potenza indescrivibile all’unicum narrativo.

La rappresentazione dell’allegra giornata di festa organizzata in ogni minimo dettaglio dalle due anziane sorelle, Miss Kate e Miss Julia Morkan, cozza violentemente con il repentino e crudele incedere del tempo e con l’approssimarsi dell’ora finale, elemento quest’ultimo che aleggia come una macabra ombra in tutte le pagine del racconto. La morte si palesa drasticamente negli struggenti pensieri del co-protagonista Gabriel Conroy (nipote delle Morkan), il quale, nella speranza disillusa di abbandonarsi ad una notte di fremente passione con la propria moglie, scopre sconcertato che il cuore di lei è sempre appartenuto ad un altro uomo, scomparso molti anni addietro, ma mai dimenticato. E così, il povero Gabriel Conroy contemplando la sua compagna serenamente addormentata nel loro talamo nuziale, sente montargli dentro una sensazione di impotenza e tremenda rassegnazione su ciò che fu e su ciò che sarà: «E pian piano l’anima gli svanì lenta mentre udiva la neve cadere stancamente su tutto l’universo e stancamente cadere, come la discesa della loro fine ultima, su tutti i vivi e tutti i morti».

Ciò che colpisce di questo meraviglioso mosaico di verità personali è la crudezza con la quale Joyce scrive senza filtri dei più peccaminosi vizi della collettività post-vittoriana: il pregiudizio, la lotta di classe, l’arrivismo, il fumo, l’alcool, il gioco d’azzardo, la condizione di sudditanza materiale e morale della donna, il degrado dei sobborghi.

L’autore si concede così poco ai buoni sentimenti tanto da far sospettare al lettore che fosse difficile rintracciarne negli animi degli uomini e delle donne della Dublino del 1900 e che l’unica scelta plausibile per i suoi personaggi fosse una soltanto: rifugiarsi altrove alla ricerca di una nuova felicità, poiché: «non aveva dubbi: per avere successo nella vita, bisognava andarsene. Non si poteva far nulla a Dublino». Per fiorire risulta indispensabile tagliare i ponti: lontano da quella città affogata dalla perenne foschia, dal malaffare e dalle naturali contraddizioni che scaturiscono dal confronto tra un secolo antico e uno moderno che porterà con sé immaginifiche rivoluzioni.

Il linguaggio di Joyce sebbene di carattere spiccatamente ricercato, non appare mai pedante e risulta di semplice comprensione. La tecnica narrativa è superlativa e la lettura scorre sufficientemente veloce. Un capolavoro da divorare.

Ilina Sancineti

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