ECHI DAL PROFONDO, MADONNE NERE, ESOTERISMO E SCIENZA: TUTTO NEL ROMANZO DI PAOLO RUMIZ.


La lettura de Una voce dal Profondo del giornalista triestino Paolo Rumiz, edito da Narratori Feltrinelli,  ha giocato sulla sottoscritta un fascino particolare e del tutto personalissimo. Difatti, generata della faglia che attraversa e taglia in due parti la cittadina di Castrovillari (CS), da almeno trent'anni, sono esercitata ad ascoltare il respiro della Terra e a coglierne subitaneamente i suoi tormentosi lamenti.

L’attenta peregrinazione di Rumiz in un’Italia segnata in ogni sua direzione dalla forza del Profondo è una morte di soli ed una risurrezione di galassie, un’esplosione di luci multiformi che lasciano lentamente spazio a lune ombrose di polveri e ceneri. Il viaggio si sviluppa seguendo le indicazioni di una carta davvero singolare: la Carta strutturale-cinematica, dono del geologo Renato Funiciello che non è “né fisica e né politica, ma raccontava ciò che sta sotto”.

Cogliendo i suggerimenti colorati del suo talismano cartaceo, l’autore intraprende la propria spedizione partendo dalla lontana e selvaggia Alicudi, l’isola eoliana più distante dalla costa. In poche lingue di terra le meraviglie della natura si disvelano tutte al primo sole, per poi ammantarsi di mistero nel cuore di notti stellate, dense dei profumi del Mediterraneo. Sull’isola il Profondo si manifesta come “un canto di anime perse”: lo si avverte immediatamente, non appena si presta attenzione a ciò che la Madre intende comunicare. È un respiro lungo, a tratti tetro, addirittura sincopato. È il riflesso “al di fuori” di qualcosa che si muove nel ventre della Terra, qualcosa che può essere affrontato solamente portandosi dietro i necessari amuleti: nella specie, un vangelo etiope, una buona dose di volontà e diversi interrogativi.

Tra arancini e buon vino, restando in Sicilia, Pantelleria costituisce senza ombra di dubbio altra tappa obbligata per  scoprire enigmi, con le sue “vigne contorte come le anime dannate della Divina Commedia nelle incisioni di Gustave Doreè” ed i “fantasmagorici bengala” del 1891. In questo luogo meraviglioso che abbraccia Oriente ed Occidente, rischio, morte e fertilità risultano strettamente connessi tra di loro: i sapori valgono il rischio, l’aria salmastra, buona e vellutata vale il rischio. La vita stessa, piena, ricca, vissuta vale il rischio della morte. A Pantelleria si aggiungono Selinunte con le sue rovine distrutte dall’incuria dell’uomo (prima che dagli accadimenti naturali) e Gibellina nella Valle del Belìce, pressoché rasa al suolo dal devastante terremoto del 1968 e poi completamente ricostruita. Denominata Gibellina Nuova, allo stato attuale, essa si presenta  come una cittadina senza centro, violentata nella sua originaria topografia. Per l’autore si manifesta come l’emblema della luce quando è notissimo che l'esistenza dei siciliani è “segnata dalla ricerca dell’ombra”. Dal suo ex sindaco, Ludovico Corrao (che tanto aveva voluto quella scellerata ricostruzione), giunge un consiglio per l’autore e viaggiatore: il mistero del Profondo è tutto racchiuso nella Montagna, ovvero nell'Etna, ed è in quel luogo che è necessario cercare risposte.

È questo lo snodo fondamentale di tutto il romanzo poiché susciterà una necessaria curiositas narrativa che accompagnerà il lettore durante il prosieguo di questa interessantissima "traversata tellurica" italiana. Tre i temi centrali: la dicotomia tra Napoli e la Sicilia (che permea tra l’altro l’intero scritto), l’importanza dell’appartenenza ai territori, il rapporto tra sacro e profano.

Senza disdegnare soste al chiar di luna e assaggi delle ottime pietanze locali, risalendo la Penisola (solo per citare alcune tappe: Messina, Reggio Calabria, Francavilla Angitola, Tropea, Castrovillari, Orsomarso, Matera), Rumiz si soffermerà sul diverso sentire popolare che ha come protagonisti assoluti “Idda” (l’Etna) per i siciliani e il Vesuvio per i campani.

La drammaticità insita di rassegnazione propria dei siculi si contrappone alla veracità napoletana. Il nero del lutto fatalista guerreggia con l’ironia del teatro e della pragmaticità della macchietta. Il silenzio s’insinua reclamando il proprio spazio tra vicoli grondanti voci, colori e cantine borbottanti. Il suono delle note corrisponde ad un Sol maggiore per Napoli e ad un La minore per la Sicilia.

Per il giornalista triestino Napoli è “porosa”: è l’incarnazione della vita stessa. Citando Augusto De Luca:“Napoli è lo scontro del fuoco del Vesuvio con l’acqua del Golfo che governa le funzioni vitali di tutto l’universo partenopeo”.
Nella “ballerina” metropoli campana, la malinconia non esiste e il rischio del terremoto viene esorcizzato affidandosi alle reliquie di santi e Madonne, “ultimi custodi di una polifonia italiana”, ai balli sfrenati e ad una invidiabile resilienza.  I suoi abitanti non si abbattono, si rimboccano le maniche. Non temono il terremoto, tanto meno le bizze del Vesuvio. Vivono il vulcano come una componente caratterizzante e onnipresente del loro territorio e, addirittura, da esso traggono beneficio: coltivano la sua terra, costruiscono sul suo suolo, vivono sotto quel cielo. In altre parole, come direbbe Camillo Boito: “I napoletani cavano l’arte dal sole”. Napoli non può prescindere dal Vesuvio e quest'ultimo non sarebbe identificabile con una città diversa da quella protetta della sirena Partenope. Dunque, il Vesuvio non può sintetizzarsi solo con l'eruzione del 79 d.C. che cancellò Pompei ed Ercolano e modificò i connotati geofisici dell'intero Golfo di Napoli: un simile pensiero sarebbe sciocco e riduttivo. Il Vesuvio è molto di più.

Del tutto particolare è anche il rapporto che i partenopei intrattengono con i defunti: essi abbelliscono la morte, per loro è "femmina" non è Thanatos (al maschile), tanto che arrivano a dialogare con le ossa e le ceneri dei loro cari estinti come se il Sopra e il Sotto non fossero divisi da una linea invalicabile, ma inscindibili parti di un tutto cosmico. Al contrario, i siciliani preferiscono associare la morte alla superstizione (talvolta persino attribuendola a pratiche occulte), raccogliersi in mistica contemplazione, entrando con ogni fibra del proprio essere nel dolore per attraversarlo. Piangono per la perdita, per gli altri e per sé stessi. Scriveva Leonardo Sciascia: “La morte è terribile non per il non esserci più ma, al contrario, per l’esserci ancora e in balìa dei mutevoli ricordi, dei mutevoli sentimenti, dei mutevoli  pensieri di coloro che restavano”.



“Osservai che la bellezza delle napoletane era solare, diversa da quelle delle siciliane, che si compiacciono dell’ombra e della sensualità del lutto”.


Altro passaggio assolutamente interessante che qui è doveroso sottolineare afferisce al sentimento di appartenenza alla terra. Una terra fertile, coltivata ai piedi della Madre Etna, così come sotto le pendici del Vesuvio, sulle alture calabresi del Pollino così come nella verdeggiante Pianura Padana.  La terra diventa riparo, origine, radici, centro, madre e tutrice di ogni essere. Con i suoi anfratti, le sue gole, i suoi mutamenti e sconvolgimenti essa è espressione universale del femmineo non solo religioso, ma anche pagano. Le Madonne nere sparse sul territorio italiano (l’incisione Nigra sum, sed formosa appare anche sulla struttura portante della Madonna nera del Santuario del Tindari, in provincia di Messina) dialogano e si confrontano con le divinità romane di Persefone e Demetra e persino con quella egizia di Iside. Non si tratta di un rapporto di competizione, tutt’altro: il paganesimo e le consuetudini popolari si intersecano con la religione e l'arricchiscono, avvicinando in maniera sensibile il trascendente ai fedeli. Utilizzando questa particolare chiave di lettura, Rumiz riesce a cogliere un geniale parallelismo tra il poeta latino Virgilio e il San Gennaro della cultura partenopea, figura sacra ai napoletani di tutto il mondo. In altre parole, la magia permea la tradizione popolare e questa, a sua volta, influenza il modo di sentire la religione.

Risalendo la penisola verso l’Italia centrale, terra di “monaci ribelli e di banditi”, di città di pietre antiche (Norcia ne costituisce l’esempio lampante) e dove sussiste una “confederazione di popoli di stampo matriarcale”, incute quasi timore l’ombra dell’apocalisse abbattutasi sull’Irpinia del 1980 (in cui anche mio padre fu tra i soccorritori) e la tristezza dei comuni più colpiti dal sisma dove “lo Stato era lontano, e persino Dio pareva un alieno”.

E poi, il recente disastro dei disastri: L’Aquila del 2009. Le sue macerie “non erano fatalità ma crimine, un’omissione che altrove avrebbe mandato in galera capi di governo”. La zona rossa della città ha acceso per decenni le luci delle telecamere delle televisioni nazionali su uno scempio che prima di essere naturale è, ed è stato umano: per l’assenza totale di prevenzione in una zona sismica per eccellenza, per ciò che avrebbe dovuto essere ricostruito e non lo è stato, per la disintegrazione del tessuto socio-culturale e il consequenziale esodo degli aquilani costretti a creare altrove i propri nidi. Dopo il clamore mediatico, L’Aquila è divenuta triste, solitaria, permeata da un silenzio mortale. Ogni sua pietra, ogni suo filo d’erba richiama i propri esuli, invano.



“La zona è rossa, ma di vergogna per come viene preclusa ai vivi”. 

Il destino della bellissima cittadina abruzzese può essere accomunato a quello toccato ai centri laziali di Amatrice, Accumoli, Arquata del Tronto ed a tutti gli altri colpiti dal terremoto del 2016/2017. 
Anche qui il copione si ripete, se possibile in maniera ancora più miseranda: prevenzione pressoché inesistente, mendaci promesse elettorali, insulsi tentativi di ricostruzione, zone rosse invalicabili, nastri gialli e neri, cittadini straniti e stanchi assiepati in caseggiati di fortuna. Allo shock iniziale, nel corso degli anni, si aggiunge una tremenda nostalgia per quella socialità spezzata che la moderna era dei social network sarà certamente incapace di ripristinare.

Il "viaggio tellurico" si conclude nell’industrioso e disattento Nord Italia: in una Pianura Padana che sembra silente, ma che cova grandi e temibili rivoluzioni al di Sotto. Nella notte tra il 16 e il 17 novembre 1570, un terremoto misterioso cagionò la quasi distruzione totale della città di Ferrara che ancora ne porta segni indelebili. Il sisma fu così intenso e provocò uno scompiglio tale da trasformarsi in una vera e propria disputa politico-istituzionale-religiosa tra l’allora papa Pio V e il duca Alfonso D’Este. La disputa in parola si concluse con la riappropriazione della città da parte del nobile estense, il quale, servendosi di “fisici ed esperti di accidenti diversi”, trasformò Ferrara “nel primo pensatoio sui terremoti dell’Italia moderna”.

Ed infine, Trieste: luogo di confine di più culture, dove le masse tettoniche di due continenti si scontrano sotto i piedi degli ignari abitanti e dove tutto, anche il profumo dell'erba appena falciata e le albe fredde e pure, sussurrano all'autore: <<Bentornato a casa>>. Casa: luogo prediletto che costituisce canto del ritorno dei propri figli, perché non esiste figlio senza una terra cui egli sia legato e grato e nella quale egli non lasci qualcosa di proprio alle generazioni che verranno.

Numerosi sono i personaggi che popolano e arricchiscono il bel volume di Paolo Rumiz.

Egli si interfaccia non solo con i tecnici che i luoghi sismici li hanno analizzati, studiati ed esplorati ( il vulcanologo Giovanni Orsi, il sismologo Livio Sirovich, la professoressa di Diritto romano Aglaia McClintock, l’architetto Donatella Mazzoleni, il geologo Silvano Sinigoi e molti altri ancora), ma anche e soprattutto con gli abitanti delle periferie degli Ultimi (Lidia Pantone, Pino e Angela, Antonio Salvati, Giovanni Mauriello, il sindaco di Balsorano Francesca Siciliani, solo per citarne alcuni).

E così, fa tenerezza e muove a commozione il racconto di nonna Peppa, la quasi centenaria “lupa marsicana”, sopravvissuta al terremoto che nel 1915 seminò distruzione e morte in Abruzzo e nella Valle del Liri, mentre inducono ad una profonda riflessione le parole intrise di amara rassegnazione pronunciate da Silvano Sinigoi: <<Siamo di fronte alle ere, ma questo disastro epocale si consuma nel corso di un’unica generazione, la nostra. A volte penso di cercare tra le pietre perché non ne posso più degli umani>>.

Una voce dal Profondo si presenta come un testo dalla scrittura piana e piacevole. Senza la minima retorica, l’autore mostra ciò che è lo stato dei fatti, con l'obiettivo principe di scrivere di nuovi inizi e non di macerie, senza cedere alle lusinghe di un sistema che di fronte alle grandi catastrofi si serve miserevolmente di un popolo che sia cieco, sordo ed anche un poco ottuso. Nelle sue righe egli mette in mostra tutta la forza che è insita ab origine nella genetica degli italiani i quali, ciascuno a proprio modo, sono capaci di trasformare le disgrazie in futuri e virtuosi modelli di comportamento “per costruire un canto del nuovo inizio”. C’è da domandarsi se siano state apprese e interiorizzate alcune drammatiche lezioni, memori del fatto che "camminiamo sulla crosta di un pianeta incompiuto" (Charles Kuralt) e che tale cammino è troppo breve per essere disseminato di lutti e devastazioni cagionati dal disinteresse e dall'incuria umana.

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Al termine di questo scritto, desidero riportare uno dei tanti racconti di mia nonna materna, Carmela, testimone ancora in vita del terremoto dell'Irpinia del 1980: <<Quando ci fu "u terramoto", tuo nonno, che era un uomo sedentario, serioso e taciturno, fece un balzo dalla sedia e urlò a tutti noi di uscire dalla casa che ondeggiava "cumu na barca". Non lo avrei mai più sentito gridare a quel modo in tanti altri anni di matrimonio. Non sapevamo dove fosse l'epicentro del sisma e impauriti e preoccupati rimanemmo in strada per quasi tutta la notte. Il mattino dopo, venimmo a sapere che era stata colpita l'Irpinia: nonostante "iere luntanissima", tutti i lampioncini del paese (che all'epoca erano assicurati agli angoli delle abitazioni solamente con cavi di fortuna) ancora oscillavano per la scossa>>. 

NDR. Distanza Castrovillari (CS) - Castelnuovo di Conza (SA), epicentro del sisma: 177,6 km.

Ilina Sancineti

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