LA MEMORIA OBLIQUA DI CAVAGLION: TRA TERRE CRETACEE, TORRI E AQUILONI.

Nel 79 d.C., mentre la furia del Vesuvio spazzava via i popolosi abitati di Pompei, Ercolano e Stabia, nella corrispondenza epistolare con l’amico Tacito, Plinio il Giovane scriveva: «Agli sguardi ancor tremanti, tutto si mostrava cambiato».

E cambiato appare il comune sentire, il paesaggio, la memoria stessa dopo l’eccidio perpetrato dalla follia nazista a danno del popolo ebraico (e non solo). Un ignominioso blackout dell’umanità che viene sempre più spesso vissuto come un semplice momento commemorativo da imprimere a fuoco nelle menti prima ancora che negli spiriti delle generazioni che si sono avvicendate nel corso degli anni.

Soprattutto in Europa, si ergono continuamente monumenti, si inaugurano luoghi della memoria, si appongono sul suolo pietre d’inciampo.

Ma nei nuovi tempi moderni (anche alla luce di ciò che negli ultimi giorni sta accadendo in Medioriente), in cui è palese e tangibile la riemersione di tensioni discriminatorie, tutto ciò può essere sufficiente? Può bastare il continuo e vuoto formalismo del ricordare?

Questi sono gli interrogativi principali a cui il prof. Cavaglion tenta di rispondere in maniera esaustiva nel suo saggio critico, Decontaminare le memorie. Luoghi, libri, sogni, edito da ADD.

Nella sua analisi, l’autore parte anzitutto da una breve descrizione ambientale dalla quale trae spunto l’opera: «Modena e il mondo rurale circostante» e cita alcuni dei maggiori intellettuali del XX secolo, quali Arturo Loria, Primo Levi e molti altri. Attenzione particolare riserva al lavoro dell’illuminato editore Angelo Fortunato Formiggini suicidatosi gettandosi nello spiazzale antistante la torre della Ghirlandina di Modena (Al tvajol ed Furmajin, come egli stesso chiese di definire il luogo) all’indomani della ratifica delle leggi raziali.

Proprio prendendo le mosse dal pensiero del Formiggini e dalla sua rivoluzionaria idea della Casa del Ridere (museo poi irrealizzato), Cavaglion incentra il proprio narrare su una letteratura che possiamo definire collaterale.

In altre parole, essa non deve limitarsi a conservare i libri relativi alla memoria su scaffali impolverati, ma ve ne deve affiancare di nuovi e all’apparenza innovativi che il Male lo ricordino in altro verso, lo richiamino direttamente o indirettamente, lo evochino in termini diversi. È indispensabile che tale improcrastinabile confronto inviti a quella riflessione critica che in Italia, soprattutto negli ultimi decenni, sembra piegata dall’evidente declino culturale delle giovani menti, dai messaggi distorti lanciati da programmi politici che sviliscono la cultura, da una memoria che rischia di rimanere impressa soltanto sulla carta e che, per citare Saul Bellow, non riesce più a tenere «il lupo dell’insignificanza fuori dalla porta».

Per l’autore cuneese anche l’ironia, l’allegria simposiale, il sarcasmo potrebbero rivelarsi ottimi antidoti per la risoluzione della problematica della memoria perché essa «non può reggersi soltanto sul pianto o sul lutto», ma è fondamentale che «dalla tragedia nasca la voglia di vivere».

Quando «la memoria non conosceva abusi», gli intellettuali ebrei solevano prendere ispirazione per le loro opere dai territori (non sempre salubri) di Mantova, Modena, Fossoli, Carpi, Ferrara e ricchissima fu, infatti, la produzione letteraria dei primi del Novecento. Ammaliati dalla calda accoglienza del Belpaese, pochi prestarono attenzione alle tormentate vicende politiche italiane e, d’improvviso, vennero travolti dalle conseguenze nefaste che ne scaturirono come se si fossero ritrovati immoti spettatori della piena del Po del 1836. Non potevano figurarsi ciò che sarebbe successo più avanti e sottovalutarono il preciso istante in cui «il paesaggio della memoria» iniziò drasticamente a mutare sotto le feroci spinte del totalitarismo (italiano e tedesco) che avrebbe insanguinato negli anni successivi quelle terre una volta amène e serenissime.

E così, gli scritti agresti intrisi di pace e visioni bucoliche di Cantoni, Loria, Massarani e Formiggini stesso si contrappongono a quelli luttuosi di Giorgio Bassani, ai cimiteri, ai mausolei, alle tombe che diventano «metafora della speranza perduta» di godere della libertà del bello.

Per Cavaglion la “questione” memoria presenta dei problemi di fondo: banalizzazione, sacralizzazione, commercializzazione. Con l’intento di ricordare gli scempi del passato, si è ricorsi ad una memoria “sbagliata” che lentamente si è svuotata del proprio contenuto e si è conformata alla società, intanto che, in un processo di diretta proporzionalità, lo stesso indotto sociale si conformava alla memoria.

Prendendo spunto da questa riflessione, Cavaglion indica la possibilità di fare ricorso alla “memoria obliqua”, già teorizzata dal francese Georges Perec. Si tratta di una memoria intima, sensibile, scevra dalle liturgie commerciali, dai sensazionalismi istituzionali, basata sull’assunto «per capire si deve rimpicciolire, non ingrandire». Difatti, sono le piccole cose dalle quali bisogna partire per costruire e ricostruire ancora, per comprendere certi sottili significati poiché, richiamando Georges Bernanos: «Le cose piccole hanno l’aria di nulla ma danno la pace».

Si tratta di un espediente utilizzato furbescamente per non cadere nella trappola del banale che a nient'altro può servire se non ad allontanare il problema dalle nostre coscienze, a lavarlo con la fluidità nebulosa del futuro.

L’autore, richiamando ancora una volta Perec, denuncia il silenzio sulla vicenda della Shoah che ha vergognosamente permeato lunghi anni della Repubblica italiana: infatti, sarà solo a partire dagli anni Novanta che la coscienza generale sembrerà risvegliarsi come per incanto (non a caso, Cavaglion parla di “effetto Disneyland”) e luoghi sconosciuti e abbandonati, tra i quali rientra anche il campo di internamento “Ferramonti” di Tarsia (CS), cominceranno a balzare agli onori della cronaca quasi per puro dileggio più che per vero amore di conoscenza.

In quello stesso momento storico, si afferma la cosiddetta “filosofia del ciononostante”: chi è sopravvissuto alla tragedia dello sterminio tenta in qualche maniera di raccontare la propria esperienza ad altri, di tramandarla se si vuole, attraverso lettere, disegni. Eppure, di tutto quel materiale dall’enorme potenziale salvifico, pochissime sono le tracce giunte sino a noi: colpa indelebile, se si riflette sul valore andato smarrito tra le increspature del tempo. I sopravvissuti sono stati dapprima testimoni eloquentemente muti di qualcosa che in origine si è tentato persino di rinnegare, di cancellare dagli archivi mnemonici della storia. In un momento successivo, sono divenuti maestri di resilienza, incrollabili nella loro fede, nel loro comune sentire. Maestri di vita e morte assieme, tra i quali capeggia certamente Primo Levi, il quale decise scientemente di togliersi la vita, dopo che i nazisti vi attentarono più volte.

Il discorso sulla Shoah è senza dubbio più complesso di quello che si riduce alle celebrazioni annuali del Giorno della Memoria: è fatto di volti e nomi (centinaia di migliaia), di testi noti e meno noti, di voci che si stanno spegnendo incalzati dalla fugacità dell’esistenza terrena, di luoghi sui quali è posto lo stigma del Male che non sono mai veramente come appaiono e devono essere prudentemente decontaminati. Ciò è riscontrabile non solo nelle lande padane, ma anche in quelle del Meridione, a Torino così come a Mantova, a Roma così come a Fossoli. Si tratta di luoghi “contaminati”, “avvelenati dal male” che non possono essere attraversati come fossero delle mete turistiche, ma richiedono di sostare sulle soglie e di meditare su ciò che si è consumato sui loro suoli.

Altro passaggio degno di nota è il collegamento, a mio avviso magistrale, che l’autore crea tra due frontiere, un ponte, uno stadio e la scuola.

Quanto alle prime, Cavaglion invita il lettore a riflettere sul ruolo svolto dalle stazioni ferroviarie, zone di «separazione, partenze coatte, convogli di deportati, di esilio e fuga». Sollecita ad analizzare il paesaggio interstiziale della stazione transalpina di Gorizia: è proprio qui, secondo lui, che si è avviato un lento, ma importantissimo processo di decontaminazione che vedrà riunite nel 2025, sotto il vessillo di città della cultura, due centri a lungo divisi dalle ideologie politiche quali Gorizia e Nuova Gorica. Stesso processo purificatore non può dirsi avviato, invece, per altre realtà come quelle francesi o quelle liguri (cita Ventimiglia) i cui confini quotidianamente respingono con rabbia esuli e fuggiaschi. E mi vien da dire, forse azzardando, non è olocausto anche quello, seppure perpetrato in tempi nuovi e con modalità differenti?

Il secondo punto d’osservazione si concentra sul ponte Morandi, o per meglio dire, su ciò che di esso rimane: rovine e macerie che la natura sta facendo proprie, sta tentando appunto di decontaminare dall’incuria umana cagione del disastro. Così come lo stadio Filadelfia del capoluogo piemontese, anni addietro tempio delle più acclamate sfide calcistiche, oggi in decadimento e sempre più di frequente associato alla tragedia della squadra del grande Torino del compianto Valentino Mazzola.

Infine, il luogo prediletto: la scuola. Una scuola “malata” a dire di Cavaglion, nella quale trova spazio la burocrazia a danno dell’immaginazione, il rigido rispetto degli schemi dei programmi a danno della libertà, nella quale gli allievi non vengono educati alla cultura della speranza, ma a quella del dramma e dell’orrore.

La terza e ultima parte dell’opera è la più profonda e personale ed è quella che svela ciò che è presente nell’intimità dell’autore: i suoi vagheggi onirici, le sue abitudini, le sue speranze, la preoccupazione per il virus pandemico che per due anni ci ha assediati e resi schiavi delle nostre case, le aspettative sul futuro.

Decontaminare le memorie è un testo “sentinella” anche un po' scomodo, se volete. Scomodo nella misura in cui porta ad analizzare il tema spinoso della conservazione e tutela della memoria dell’Olocausto da una differente angolazione: non è semplicisticamente una questione etica di schieramenti (chi è “buono”, chi è “cattivo”), bensì si tratta di individuare quali sono state le cause generatrici di quella follia e quali gli errori compiuti dalla storia e da noi stessi che della storia siamo parte attiva e integrante.  

Ciò che colpisce del saggio è l’affezione viscerale dell’autore verso le opere letterarie e verso il messaggio in esse contenuto. Cavaglion ne riporta moltissime, ne diventa quasi un custode accorto, silente e consapevole. Con garbo e pacatezza esprime un monito di ribellione e protesta verso un sistema istituzionale che brancola nella cecità dell’oscurantismo culturale quando fa propria l’affermazione di Enrico Heine «chi brucia libri finisce col bruciare uomini, la violenza è un seme che non si estingue».

Se gli intellettuali del primo Novecento sono stati distratti dalla falsa promessa di bellezza e serenità di una Nazione forte, uscita vittoriosa dal primo conflitto mondiale, le menti delle generazioni moderne sono ottenebrate dall’uso smodato della tecnologia (talvolta poco utile, a tratti persino dannosa) e da un benessere incontrollato.

Dunque, diviene indispensabile interpretare gli abomini del passato in altro modo per far sì che la Storia dialoghi fattivamente col presente e ciò con l’unico scopo di garantire che l’accorata preghiera di Primo Levi (ciò che è stato non si ripeta mai più) non venga decontestualizzata, strumentalizzata politicamente a piacimento di questo o quello schieramento, ma sia ascoltata ed esaudita.

Le parole dei testimoni della memoria devono scavare nell’animo seguendo l’aforisma ovidiano «come molle acqua che scava la dura pietra», devono discendere in profondità, intaccare anche i cuori più imperturbabili.

Concludo con una visione serena che si accompagna alle speranze di Cavaglion: se l’autore immagina Saba, Svevo e Joyce passeggiare assieme e intrattenersi nella piazza di Trieste, per un solo momento, ho l’impressione di trovarmi nel giardino di Pirandello, nel quale il padrone di casa con la sua immancabile aria beffarda, assiste al duello al fil di lama tra Giuseppe Ungaretti e Massimo Bontempelli nato da una disputa letteraria, mentre nell’etere azzurro volteggiano aquiloni colorati.

Ilina Sancineti

 

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