VIE: EUGENIO RIBECCO E LA SUA IDEA DI POESIA.
in ognuno di noi,
succedono cose
che non posson divenir
oggetto di confessione.
Perché hanno un non so che
di raccapricciante.
Potrebbe trattarsi
di una tacita protesta dell’anima
a ridosso delle nostre azioni.
Di queste, non tutte sono umane,
ed è un bene
che abbiano creato certi armadi.
(Non aprire quell’armadio – Eugenio Ribecco).
Che la forza impattante e salvifica della poesia si manifesti in momenti particolarmente oscuri della storia dell’umanità è assodato.
L’aura poetica scuote e permea quell'intero sottobosco di anime
smarrite che, non riuscendo a cogliere il meglio del presente e vivere con serenità
il proprio tempo, s’affanna a rincorrerne un altro. Un tempo che è imperituro,
sospeso, dannatamente sfuggente e dannatamente personale, che è scandito dai palpiti
del cuore e dal vibrare delle emozioni.
Quel che è certo è che il momento attuale intriso di
contraddizioni, spesso di dubbia moralità, castigato dalla violenza e dalla diseducazione sta rappresentando un
terreno fertile per il rapido germogliare e fiorire di nuove
personalità letterarie dall’indole particolarmente sensibile e dalla penna
decisamente piacevole. E questo è un bene.
E così, per gioco del fato e per curiosità tutta
femminea, mi sono imbattuta nei preziosi e godibilissimi versi del giovane calabrese
(originario di Spezzano Albanese, Cosenza) Eugenio Ribecco. Nello specifico, si
tratta di ventisette liriche raccolte nella collana poetica Vie, edita dalla
Dantebus edizioni e che ospita anche altri tre autori: Roberto Carlucci, Maria Francesca Cervo e Moreno Mignanti.
Per ragioni che mi riservo di illustrare in altra sede, mi soffermerò per il momento soltanto sulle opere di Eugenio Ribecco.
L’Autore con competenza nient’affatto scontata per la
sua giovane età, affronta con la sua poetica profonda ed a tratti delicatissima tematiche tra le più disparate: la violenza di genere, l’amore, l’introspezione
personale, il confronto con il dolore e con la morte.
Il senso dei suoi scritti si disvela con pacata
lentezza all’occhio dell’attento lettore, quasi fosse una miscellanea di colori
cangianti le cui sfumature hanno quale scopo primario quello di illuminargli la
strada all’interno della propria anima in un peregrinare straordinario e del tutto
atipico. Ma non solo. Attraverso parole magistralmente impiegate, l’Autore confessa
senza retorica e con estrema chiarezza le preoccupazioni che l’affliggono e
che, in fondo, non sono altro che una proiezione di quelle ansie e di quei timori
che accompagnano indistintamente tutto il genere umano.
"Per spianare la strada, bisogna chiudere gli occhi.
Chiudili e dimmi cosa vedi, un orizzonte?".
Ogni componimento del Ribecco ha un suo intrinseco
fascino: in alcuni, in particolare, appare chiara la rivoluzione intima che agita il poeta e i cui echi esplodono all’improvviso in espressioni meravigliosamente
estatiche come: "Ora, anche se morto,/io pongo l’accento/sulla perennità del
mio tempo"; oppure "… e che i sogni custoditi brillano/di luce propria, come
corpi celesti/in un sistema emozionale…".
Carichi di significato sono anche i riferimenti manifesti al proprio borgo natìo, Spezzano Albanese: luogo dalle salde radici, di affetti eterni, di ricordi incancellabili. Un piccolo centro di alta collina fatto di "stradine, case antiche e finestre rotte", ma anche cantuccio intoccabile e prediletto del cuore dove poter sempre tornare.
Di potenza dirompente è, infine, la trilogia Sogno Assassino suddivisa in tre momenti (Prima, Seconda e Terza parte) e dedicata alla tematica della violenza sulle donne: talvolta subdola, crudele e infine, appunto, assassina. Con le ultime battute della trilogia in questione, Ribecco lancia una sorta di mònito, chiosando: "Ogni scelta che compi diverrà il tuo destino/non prendere esempio da questo sogno assassino".
Se la poesia rappresenta un tramite di luce verso un nuovo universo, appare indubbio come Eugenio Ribecco, assieme a pochissimi altri, sia candidato a divenire uno degli esponenti più promettenti di un brioso fermento di rinascita.
Ad maiora, caro Eugenio.
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