UNO, NESSUNO E CENTOMILA: LA CURATA ANALISI INTROSPETTIVA DI LUIGI PIRANDELLO

Esistono degli interrogativi nell'esistenza umana che talvolta sembrano non trovare risposta o quanto meno una serie di risposte non univoche, fallaci, lacunose.

«Chi sono io?»; «Che cosa sono oltre ad un involucro di carne, fasci di nervi, ossa e sangue?»; «Come appaio fuori, agli occhi degli altri?».

Sono queste (e tante altre) le domande che tormentano il giovane Vitangelo Moscarda, sfaccendato rampollo di una delle più prestigiose famiglie di Richieri (meglio nota come Agrigento, Sicilia) e protagonista dell’opera magistrale che porta il nome di Uno, nessuno e centomila di Luigi Pirandello, edito da Giunti-Barbèra.

Il testo del grande Maestro inizia proprio con una domanda e una poco avveduta osservazione che Dida, la giovane e inetta moglie del protagonista, rivolge a suo marito, mentre è intento a specchiarsi per indagare la motivazione di un fastidio ad una narice.

Da questa analisi del tutto involontaria e dalla scoperta straordinaria di piccoli difetti fisici fino a quel momento ignoti, s’innesta nel ragazzotto senza arte né parte un tarlo, un quesito abissale. Si manifesta per la prima volta quello che egli definisce “il mio male”.

La vicenda parte proprio dall’indagine che il Moscarda incomincia a compiere sulla propria persona e sulla sua esistenza in generale: dapprima, invoca la più completa solitudine e brama di essere lasciato solo a riflettere dalla moglie ( «la vera solitudine è in un luogo che vive per sé e che per voi non ha traccia né voce, e dove dunque l’estraneo siete voi»); poi immagina di essere in errore, di stare forse esagerando e che il suo tormento altro non è se non un’innocente fissazione («il mio caso provava ancora una volta un fatto risaputissimo, cioè che notiamo facilmente i difetti altrui e non ci accorgiamo dei nostri»); infine, quasi si perde in un’analisi decisamente più dolorosa che arriva a manifestargli con crudeltà ciò che non molto tempo prima gli appariva insensato ed estraneo.  

E così, davanti agli occhi increduli di Moscarda si profila tutta la sua vita: un’esistenza becera, quasi inconsistente, condotta all’ombra del defunto padre, usuraio di banca rispettato da pochi e odiato da moltissimi; dietro alle spalle di Firbo e Quintorzo, uomini che riteneva degli amici fidati e che invece guidano e gestiscono banca e patrimonio della famiglia Moscarda a piacimento (il loro, s’intende); in balìa della moglie Dida, che persa nelle proprie fanciullesche facezie non fa altro che trattarlo come un gingillo d'arredamento, un fantoccio senza spirito, tanto da arrivare ad appellarlo con il fastidioso e ridicolo nomignolo di Gengè.

Il Moscarda giunge alla conclusione di aver vissuto la vita di un altro o meglio, di non aver vissuto affatto, poiché “la vita si muove di continuo, e non può mai veramente vedere se stessa”. Ed allora, quasi si ravvede e matura in lui un sentimento di lucida follia che parte da una donazione improvvisa di una sua proprietà ai coniugi Di Dio che suo padre (e lui stesso senza volerlo) ha da sempre ignorato, reputandoli alquanto singolari; per poi culminare in un poderoso strattone della sua signora che inorridita non solo dal gesto violento, ma anche dalle stramberie sempre più frequenti del marito, lo abbandona di tutta fretta per tornare nelle spire della protezione paterna.

Tutti gli atti che il “buon figliolo feroce” compie, appaiono suggeriti dalla più totale pazzia agli occhi degli abitanti di Richieri: ma Gengè non è più Gengè; egli è diventato finalmente il Vitangelo Moscarda che avrebbe dovuto essere da sempre.

Quasi ad incarnare la drammatica figura di Edmond Dantès ne Il Conte di Montecristo (ma con tutt’altro esito), il protagonista è pronto a rivendicare i propri diritti ed anche a farsi carico degli oneri trascurati in precedenza. E chissà, probabilmente sarebbe anche stato possibile ricavarne un diverso epilogo, se l’interesse inatteso da parte di Anna Rosa (l’ “amichetta” di Dida) non gli avesse quasi cagionato la morte spingendolo verso il definitivo deliquio.

Il volume di Pirandello, scritto in prima persona, si articola in otto parti (che il Maestro definisce "libri") ciascuna delle quali composta da brevi capitoli.

In essi è fatto sfoggio della totale padronanza di lessico e dell’impareggiabile maestria narrativa dell’Autore: impossibile non intravedere tra le righe le sue maschere teatrali («Chi era? Ero io? Ma poteva anche essere un altro! Chiunque poteva essere, quello lì»); così come appare improbabile non notare l’amore per la sua bella terra di Sicilia cristallizzato in immagini descrittive di rara potenza e bellezza («Basta guardare là quelle alte montagne oltre valle, lontane lontane, sfumanti all’orizzonte, lievi nel tramonto, entro rosei vapori»).

Senza  alcun dubbio, siamo al cospetto di un lavoro difficile e per questo motivo del tutto inadatto ad un pubblico di lettori disattento o avvezzo a letture poco impegnate. Uno, nessuno e centomila non è infatti un testo di prosa leggera: in esso è insito tutto il fascino dell’opera pirandelliana complessa, a tratti di stampo addirittura filosofico.

È un lavoro profondamente introspettivo sulla considerazione che l’uomo ha di se stesso e degli altri e che induce il lettore a comprendere quanto le concezioni e gli attributi che abbiamo del prossimo appaiano terribilmente differenti a seconda del punto di vista dell’osservatore (ciò che è vero per me può apparire falso per altri).

«Se ci pensate bene, questo è il meno che possa seguire dalle tante realtà insospettate che gli altri ci danno. Superficialmente, noi sogliamo chiamarle false supposizioni, erronei giudizii, gratuite attribuzioni. Ma tutto ciò che di noi si può immaginare è realmente possibile, ancorché non sia vero per noi. Che per noi non sia vero, gli altri se ne ridono».



Ilina Sancineti

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