ALESSANDRO BARICCO E I SUOI "CASTELLI DI RABBIA".
In circa trecento pagine, Baricco si diverte a distrarre il lettore giocando con numerosi virtuosismi
della lingua italiana e accompagnandoli con una narrazione a tratti così ermetica da instillare nell'animo un senso di febbrile ansia. Ansia tanto forte e tanto diffusa da indurre chi legge a
proseguire al solo scopo di individuare le sponde sulle quali l’Autore desideri che si approdi.
Nel testo si intrecciano due storie principali, nonché tutto un intricato
corollario di sottotrame zeppe di strampalate personalità.
L’intero viluppo di vicende si svolge nella cittadina immaginifica di
Quinnipak nella quale ogni personaggio ha una storia singolare da raccontare.
E così, in questo piccolo mondo fatto di cose semplici eppure
straordinarie, trascorre la vita tranquilla del signor Rail, proprietario di
una promettente vetreria e di sua moglie Jun. La loro esistenza è connotata da
pochi, ma infuocati momenti di passionale intimità, intervallati da lunghe e enigmatiche
partenze di Rail. Nessuno sa mai
dove si dirige e quando tornerà, se non fosse per un pacco che, di tanto in
tanto, viene recapitato a sua moglie. Al suo interno c’è sempre uno stesso
gioiello che viaggia in avanti ed indietro e, quando ritorna nelle mani di Jun,
è certo anche il ritorno imminente a casa del signor Rail.
La quotidianità di questa strana famiglia si evolve con lentezza, di giornata
in giornata, fin quando a Quinnipak non accadano due fatti sconcertanti: l’arrivo
del silenziosissimo Mormy, figlio nato da una relazione clandestina del signor
Rail con una donna di colore e di cui Jun non era minimamente a conoscenza e la posa di Elisabeth, una locomotiva che, nell’immaginario affascinato dalle nuove tecniche
di Rail, dovrebbe congiungere Quinnipak con mille altre località e segnare così
il definitivo sviluppo di quel tempo non più antico, ma non ancora moderno.
«Andavano e venivano, i treni, come matti. E tutta la gente, a scendere
e a salire, ognuno a cucire la sua storia, con l’ago della propria vita, lavoro
maledetto e bello, compito infinito».
Nel frattempo, la piccola cittadina fa da sfondo anche alla solida amicizia che si instaura tra il giovane Pehnt e l’anziano Pekisch, uomo dall’orecchio musicale sopraffino che crea
dal nulla un’orchestra umana che egli definisce "umanofono": ad ogni elemento di
questa inconsueta accozzaglia di strumenti è assegnata una e una sola nota da riprodurre. A
nessuno del gruppo è consentito derogare a tale regola in quanto si finirebbe
con lo spezzare l’alchimia dell’equilibrio musicale che, tuttavia, risuona solamente
nella mente di Pekisch.
Per molti versi, questo testo di Baricco mi ha ricordato le peripezie di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino: tanti inizi (chiamateli
pure incipit, se preferite) apparentemente disconnessi tra di loro, eppure
legati a doppio filo da un destino comune che si consuma in uno stesso luogo.
Così, il sogno di Dann Rail di realizzare una ferrovia e di far finalmente
muovere la sua amata locomotiva dal torpore, incontra quello di Pekisch che non
ha una sua nota e vorrebbe tanto trovarla nell’abisso di melodie che fa
comporre alla sua orchestra; quest’ultimo abbraccia a sua volta l'aspirazione di
Pehnt di diventare adulto e fuggire da Quinnipak che sembra
ottenebrare ogni sua ambizione di emancipazione; vi è poi il sogno di Hector Horeau
di costruire un gigantesco palazzo interamente in vetro, servendosi
delle lastre prodotte dalla vetreria di Rail; infine, tutto va a cozzare con il
selvaggio desiderio carnale che unisce scandalosamente un ormai adulto Mormy alla
bellissima Jun e che culminerà con un repentino e misterioso spargimento di sangue.
Alla fine del viaggio, ogni sogno dei protagonisti svanisce e si scompone come fosse un castello di carte sul quale si abbatte una tempesta di vento.
«Così fa il destino potrebbe filar via invisibile e invece brucia dietro di sé, qua e là,
alcuni istanti, fra i mille di una vita».
Questo secondo volume di Alessandro Baricco che ho avuto il piacere di leggere è un'ulteriore lampante manifestazione dell’invidiabile padronanza linguistica
dell’autore torinese: una miscellanea di tecnica, contenuti e
innovazione.
C’è da sottolineare che non ho particolarmente apprezzato le ripetizioni anche qui, come in Seta, numerose e forse non propriamente utilissime, ma ho ben
inteso si tratti di una particolarità dell’Autore che ovviamente non posso in
alcun modo permettermi di contestare.
Invece, è da elogiare l’armonia e la bellezza quasi poetica di certe proposizioni, così squisitamente delicate da meritare di essere segnalate e appuntate nell’animo, ve ne riporto solo due, ma vi assicuro sono moltissime:
«Nel senso che forse, sempre, e per tutti, altro non è
mai, leggere, che fissare un punto per non essere sedotti, e rovinati, dall’incontrollabile
strisciare via del mondo».
«Lo vede il destino? Tutto è già scritto eppure niente si può leggere».
Castelli di rabbia è un testo impegnativo, ma lascia certamente ai lettori grandi insegnamenti.
Ilina Sancineti
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