SPARE - IL MINORE: IL CASO EDITORIALE DELL'ANNO?
Quest’oggi intendo parlarvi di quello che, ad onor di cronaca, pare presentarsi come il caso editoriale dell’anno del Signore venti-ventitre: mi riferisco a Spare - Il minore, corposo volume realizzato dal rampollo reale di casa Windsor, il principe Harry, ed edito per l’Italia dalla Mondadori.
Casa Editrice di valore storico e solitamente lungimirante era scontato che la Mondadori non si lasciasse sfuggire l’occasione di intercettare la curiosità di svariate migliaia di lettori e mettesse le mani su un lavoro che potrebbe far lievitare sensibilmente i propri incassi. Ma ciò è comprensibile e giustificabile.
Preciso che non ho letto il volume in questione, che esso non rientra tra i miei gusti letterari e che, di conseguenza, non ho alcuna intenzione di acquistarlo.
Tuttavia, seppure a pochi lettori interessi la mia opinione, intendo comunque esporla considerato che ancora per diritto costituzionale mi è concesso.
Preliminarmente, voglio sottolineare che non sono affatto affascinata dagli intrighi di palazzo (per lo meno da quelli della nostra epoca fintamente realistica), dalle vicende esistenziali di uomini e donne che hanno la fortuna di aggirarsi indisturbati nelle reali stanze dei bottoni e dalle pseudo sofferenze che possano riguardare un principe (o ex principe) che per amore ( o per altra umana pulsione ) abbia deciso di spogliarsi dei titoli nobiliari che pur gli erano riconosciuti dalla dinastia regnante.
Fermo restando tali considerazioni, da lettrice critica ritengo inopportuno rimpinguare le tasche di un uomo già abbastanza facoltoso, che gode di ogni agio senza doversi preoccupare dello spettro terrificante del fine mese e, soprattutto, che millanta qualità di autore (tale non è, e sia assolta dall’Altissimo la mia presunzione).
Su tutto il resto (contenuto, forma e messaggio del testo) per ovvie ragioni non posso proferire verbo.
Questa smania modernissima di consentire a tutti, indistintamente, di pubblicare l’impossibile mi provoca una violenta orticaria.
Si tratta il pubblico di lettori come fosse bestiame al pascolo o gente di mercato in balia del richiamo subdolo dei venditori che non fanno altro che affannarsi furbescamente per presentare sul banco la merce migliore.
Questo non è scrivere e questo non si chiama leggere.
Lettura e scrittura, nobilissime arti, non possono essere mercificate, svuotate di contenuti e di messaggi.
Sia chiaro: non è di certo il sentimento di invidia che m’anima quanto, piuttosto, quello di una vivida rassegnazione davanti all’inconcepibilità di un tempo che si presenta sempre più vuoto e fittizio.
Un tempo dove l’apparenza è più importante (e più utile) della sostanza. Dove i buoni contenuti vengono demonizzati a discapito del gossip, delle sciocchezzuole di portineria, delle volgarità di bordello. Dove da un lato, le opere dei Maestri sono ingiustificatamente sottoposte alla censura del politicamente corretto e dall’altro si offre l’opportunità ad analfabeti funzionali di pubblicare testi di dubbia qualità che non fanno altro che violentare la nostra meravigliosa lingua italiana. Ciò soprattutto se l’individuo di turno è divenuto famoso all’improvviso per uno strano e fortunatissimo gioco del destino.
Su questo punto divengo dannatamente polemica e chiedo venia ove vogliate concedermene: scrivere non è per tutti.
Il sapere ammaestrare la parola lasciandola fluire dalle dita alla carta è un’arte e di artisti ne esistono sempre meno. Non io, naturalmente, che non oso neppure qualificarmi quale letterata.
La scrittura è passione, sacrificio, rinuncia, talvolta persino dannazione. Non si acquisisce frequentando fantomatiche scuole (tutt’al più quelle consentono di affinare la tecnica), né dettando ad altri le proprie memorie, nell’attesa che qualcuno imponga ordine in mezzo al caos di idee e considerazioni.
La scrittura è un dono, qualcosa insito nella nostra coscienza e nel nostro essere già dal momento della nascita, un fatto genetico.
Soprattutto, la scrittura non si vende, non può essere merce: sebbene un libro sia un bene materiale, quello che in esso è contenuto è quanto di più immateriale esista sulla Terra.
Il guadagno ottenuto dalla vendita rappresenta per il vero autore un fatto rilevante solo in seconda battuta. L’obiettivo principe deve restare sempre e solamente uno: darsi totalmente al proprio pubblico.
Ed io mi chiedo: quali di questi sentimenti possono mai animare un uomo che dalla vita ha ottenuto praticamente ogni cosa? A cosa potrebbe servire raccontarsi (probabilmente gettando fango addosso ad altri) per il puro scopo di monetizzare?
Questo non è ciò che auspico di ottenere con i miei scritti. Senza dubbio si tratta di una visione romantica e completamente scollata dalla realtà. Ma, come già detto in precedenza, la scrittura per la sottoscritta è arte e l’arte è un’essenza immateriale, che dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) appartenere all’umanità.
I poveri volumetti da me partoriti, abbandonati nell’oscurità di una camera nell’attesa della Resurrezione, sono certamente imprecisi, imperfetti, forse troppo “barocchi”. Tuttavia traboccano di sentimenti: i miei e quelli dei lettori che decidono di conferirmi il prezioso incarico di restare a fargli compagnia per qualche istante preziosissimo della loro giornata.
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