8 MARZO FESTA DELLE DONNE. MA QUALE FESTA?

Forse non tutti conoscono la storia di Beatrice Cenci, nobildonna romana del Cinquecento giustiziata per parricidio e, probabilmente, pochissimi saranno in grado di seguirmi nel collegamento che intendo creare tra l'efferato fatto di sangue, ormai remotissimo che mi accingo a descrivere e la “festa” della donna.

Quest’oggi, invero, intendo sorprendere il pubblico che spero resterà soddisfatto dalla lettura di questo breve articoletto.

Ebbene, procediamo con ordine: ho esordito citando una certa Beatrice Cenci. La nobile giovinetta romana visse tra il 1577 ed il 1599, anno questo della sua orribile morte.

Secondo le testimonianze del tempo abbastanza precise e ricche di particolari, Beatrice era fanciulla di bell’aspetto e piena di grazia.

Fiorita la sua femminilità, suo padre Francesco Cenci, ometto riprovevole sotto diversi punti di vista (fu arrestato più volte, costretto alla fuga verso Napoli a causa di contrasti con papa Sisto V ed era, per aggiunta, uno squallido omicida e un fedifrago impenitente) incominciò a manifestare nei confronti della ragazzetta sentimenti ambigui ai limiti della blasfemia.

Allontanò così da Beatrice le attenzioni delicate di monsignor Guerra, ricco esponente del clero romano, che aveva manifestato l’intenzione di prenderla in sposa e si liberò anche dei propri figli maschi con i più fortunosi espedienti: restarono in vita solamente Giacomo che intanto aveva preso moglie e si era trasferito lontano da casa Cenci e il piccolo Bernardo.

Grazie a queste macchinazioni diaboliche, Francesco Cenci poté beneficiare del proprio dominio incontrastato sia sulla povera e innocente Beatrice e sia su Lucrezia, la sua seconda sposa.

Furono anni terribili di reclusione in Rocca di Petrella e di abusi innominabili verso le due donne, ma furono anche anni in cui Beatrice, in gran segreto, aveva iniziato una fitta corrispondenza con Monsignor Guerra dove l’informava di ciò di cui era vittima.

Il Guerra, dietro promessa di un’ingente somma di denaro, riuscì a convincere i due servitori di palazzo Cenci, Marzio e Olimpio, ad assassinare il loro padrone.

E così fecero: Francesco Cenci moriva nel sonno il 9 settembre 1598 a Rocca Petrella mentre ciò che restava del suo corpo fu fatto precipitare dal torrione del castello per inscenare un suicidio.

Tuttavia, la Regia Corte di Napoli per nulla nuova a simili fatti di sangue, incominciò ad indagare sull’accaduto e dopo ammissioni e ritrattazioni varie da parte dei protagonisti della triste vicenda, Beatrice che nel frattempo era riuscita a ritornare a Roma, fu indotta alla confessione per salvare la sua famiglia e ritenuta la vera responsabile del delitto.

Fu il nuovo pontefice, Papa Clemente VIII, storico avversario dei Cenci, a decretare e infliggere le condanne definitive: Lucrezia e Beatrice vennero decapitate a Castel Sant’Angelo l’11 settembre 1599. Lo stesso giorno, sotto il giogo di una terribile tortura, periva anche Giacomo. L’unico ad essere risparmiato fu Bernardo, il più giovane dei Cenci.

Si narra che il fantasma della povera Beatrice vaghi ancora nelle vie romane in cerca di riscatto e che appaia ogni anno la notte dell’11 settembre sugli spalti della Rocca di Petrella e di Castel Sant’Angelo.

L'ingiusto fato toccato a Beatrice Cenci non appare molto dissimile da ciò che le donne dell’epoca moderna sono costrette a subire: angherie da parte dei compagni violenti nelle fintissime vesti protettive di mariti, fidanzati, amanti e, soprattutto, scarsa attenzione (in alcuni casi, completo disinteresse) da parte di coloro che dovrebbero proteggere i cittadini in quanto membri di una Comunità.

Nonostante le lotte femministe che negli anni si sono succedute e accese come fossero lucciole fluttuanti in una notte di maggio, la donna continua ad essere considerata inferiore o, semplicemente, un giocattolo del piacere da sopraffare, da dominare con tutti i mezzi possibili.

Non veliamo d'ipocrisia certi discorsi maschilisti apparentemente ironici (le donne, meglio che cucinino e stiano in silenzio), certe scelte dolorosissime che il genere femmineo si vede costretto a compiere (o fai carriera nel mondo del lavoro o fai la madre), certi comportamenti stereotipati che bisogna assumere per essere considerate rispettabili (no alla gonna, specie se corta; no al tacco,  specie se troppo alto; no al trucco, soprattutto se è troppo vistoso).

E allora, oggi mi chiedo e chiedo a voi graditi lettori: a cosa serve una festa per celebrare le donne se ogni giorno, tutte noi, siamo costrette a tacere l’inverosimile per ciò che accade sui posti di lavoro, in famiglia e, in generale, nel connettivo sociale?

A cosa serve questo spreco consumistico di mimose, di fiori, di ciarpame inutile se quest’oggi si commemorano donne che hanno sacrificato la loro vita?

Davvero necessitiamo di questa insignificante mercificazione di corpi e di anime per essere riconosciute uguali all’uomo e rispettate?

Sebbene i mutamenti socio-culturali e socio-giuridici abbiano, in qualche misura, frenato la deriva maschilista soverchiatrice, la storia di Beatrice Cenci, anche se in termini diversi e per mani diverse, si ripete quotidianamente da oltre quattrocento anni.

Quattrocento anni!

Racconta di una donna invisibile agli occhi della giustizia e dalla società del tempo poiché di valenza minore rispetto all’uomo, le cui parole non contano perché non sono credibili, i cui sentimenti sono affermazioni di dubbia moralità, le cui pulsioni sono esternazione del Maligno.

Non serve una festa della Donna per celebrarci.

Serve uguaglianza ed eguaglianza.

E, soprattutto, in un mondo informe, violento e abbruttito dal male serve amore.

 



«Con la novità dei loro pensieri e delle loro azioni le donne dicono di essere già in cammino verso la libertà. Esse sanno, però, di non essere ancora arrivate, perché nessuno è libero fino a quando tutti non saranno liberi».

Letty Mandeville Russel



Ilina Sancineti

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