UNIVERSITA' E DISAGIO GIOVANILE:UN'ALTRA VITTIMA DELL'INDIFFERENZA SOCIALE
“Quando ti laurei?”; “Quando hai l’esame?”; “Quando sarà il prossimo?”
Sono tre domande che a distanza ormai di anni dalla fine del mio percorso di studi, ogni tanto riaffiorano nella mia mente, tormentandomi.
Qualcuno, malvagiamente sostiene: “chi non ha figli, non può capire”.
Io, consapevolmente specifico: “chi non ha frequentato l’università, non può capire”.
Chi non ha vissuto le notti insonni sui libri di testo, le tensioni pre-esami, le lacrime versate su concetti incomprensibili, i sacrifici spesi a preparare il terreno per il proprio futuro no, non può capire. Cosa si prova, come ci si sente. Soprattutto quando tutto ciò che si è fatto non si traduce in un successo.
Discutere delle cause che hanno portato la ragazza all'insano gesto non avrebbe alcun senso e si tradurrebbe in una gravissima mancanza di rispetto nei confronti delle persone a lei più care, nonché alla sua memoria.
Tuttavia, sorge spontanea una domanda di carattere generale? Perché?
Questa nuova società ipertecnologica, iperconnessa, iperattiva non vuole far altro che generare un essere umano perfetto: un individuo privo di alcun tipo di difetto fisico, che non ceda alla prevaricazione naturale del tempo ed anzi, ne scandisca egli stesso i momenti, le ore, i minuti. Un uomo-macchina i cui ritmi vitali siano identici a quelli di tutti gli altri e si riassumano nel trittico imprescindibile università-lavoro-matrimonio.
Gli esseri umani si muovono costantemente in una gabbia di lutezio nella quale sono assorbiti dagli impegni, da lavori da portare a termine, da scadenze, da utenze e mutui da pagare. Tutti siamo costretti a stare al passo, non possiamo permetterci cedimenti, dobbiamo affrontare ogni cosa a testa alta come fossimo soldati e questa forza centrifuga non fa altro che sfinirci, portandoci alla deriva. Purtroppo, talvolta ci schiaccia, ci soverchia, ci conduce su oscure vie.
E qualcuno si perde.
Nascono così fenomeni sempre più diffusi quali l’ansia, la depressione, i disturbi psichici di varia natura.
Nell’ambito universitario questa tendenza all’ossessivo superamento dei propri limiti viene estremizzata dal confronto con gli altri e da quell’ingiustificato senso di inferiorità che si insinua nei pensieri dei più giovani nel momento in cui iniziano a riflettere su ciò che il futuro riserverà loro.
“Perché io non riesco?” è una delle domande con le quali i discenti universitari si trovano a fare quotidianamente i conti.
Sebbene dall’esterno (soprattutto da parte di certe categorie di genitori) queste incertezze possano apparire sciocche manfrine, per coloro i quali vivono intensamente gli ambienti di studio, esse sono capaci di creare dei solchi profondi nelle personalità, tali da divenire insuperabili e da trasformarsi in vere e proprie patologie.
La società odierna ha questa propensione a correre come un treno verso l’avvenire, che poi non è altro che un momento costruito sull’incertezza, sull’inconsistenza.
I ragazzi vengono definiti bamboccioni e si additano negativamente, ma non gli si permette concretamente di emanciparsi, fornendo loro un lavoro dignitoso che non si traduca in una giornata lavorativa di dodici ore (magari anche rischiosa, vedi la condizione dei riders) a pochi spiccioli.
Si rimprovera alle coppie di non avere il “coraggio” di sposarsi o di mettere al mondo dei figli e non si considera la circostanza che in Italia manchino delle politiche sociali attive a sostegno delle famiglie.
Ancora, si fa leva sulle professionalità e sulle specializzazioni, ma si trascura il fatto che per acquisire competenze ci sia bisogno di tempo, e di tempo ai giovani ne viene concesso sempre meno.
I ragazzi che vivono un momento umano di difficoltà dovrebbero poter beneficiare all’interno delle scuole e delle università di percorsi psicologici strutturati ad hoc per le loro esigenze e che siano accessibili a tutti, ove possibile, addirittura gratuiti. Debbono poter contare su validi professionisti che siano in grado di esplicitare loro le soluzioni (perché una soluzione esiste sempre) e che facciano leva sui loro punti di forza.
I giovani non possono portare sulle loro spalle il peso di un fallimento solo potenziale e la collettività non può trattarli come reietti solamente perché il loro percorso non si svolge secondo i dettami imposti dall’università o dal docente di turno che, insofferente, rinvii il malcapitato al prossimo appello, magari facendo anche saltare (volutamente) la sessione di laurea.
Se vogliamo costruire una società realmente sana sarebbe opportuno compiere un passo indietro e dare ai più giovani una chance.
Ascoltiamoli.
Ascoltiamoci.
Ilina Sancineti
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