27 GENNAIO - GIORNATA DELLA MEMORIA: IMPOSSIBILE DIMENTICARE

“Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo.”

Se questo è un uomo - Primo Levi


Non avevo ancora compiuto dodici anni quando, nell’estate del millenovecentonovantacinque, qualcuno (non ricordo chi fosse, se mia madre oppure mia zia) mi regalò un libro dal contenuto preziosissimo: "il diario di Anna Frank". In quel periodo beato, la mia vita era fatta di cornicette colorate ai margini dei quaderni di scuola, di regoli impilati di tutta fretta nell’apposito scatolo arancione dopo la lezione di matematica, di giochi all'aria aperta e di qualche bamboletta scialba. 

Non avevo mai pensato che fuori da quel mondo ovattato, non molti anni addietro, si fosse consumata una tragedia di proporzioni inimmaginabili; che uomini avessero sterminato altri uomini sulla base di un’ideologia che, prima di ogni cosa, era politica; che il Maligno avesse camminato lungamente sulla Terra senza essere riconosciuto.

In quell’estate di scoperta, il testo scritto da una ragazzina iniziò a piantare nella mia mente tutta una serie di interrogativi.

Quando la vicenda dell’Olocausto venne affrontata a scuola per la prima volta, la quasi totale indifferenza che colsi nell’espressione seccata dell’insegnante mi lasciò basita: a suo parere, si trattava di una semplice pagina di storia, anche un poco scomoda, una di quelle da inserire nei programmi scolastici solamente per riempirli di nozioni. Non c’era tempo per fare domande “sciocche”, non c’era tempo per obiezioni di sorta.

Così, domandai ai miei nonni: ai maschi, in particolare.

Nessuno di loro due aveva partecipato attivamente alla Seconda Guerra Mondiale (ai tempi, non erano neppure adolescenti), ma entrambi ne avvertivano ancora un carico di sofferenze che era complicato esplicitare con la parola.

Mio nonno materno uomo dalla tempra fortissima, di indole rigida e conservatrice, mi raccontò della pratica diffusa di far bollire in un recipiente le bucce delle fave e delle patate: da mandar giù esisteva solo quello per lui. Si trattava di uno dei pochi momenti di intimo scambio, in cui vedevo comparire tra le sue scure rughe di espressione un’ombra di profondo scoramento.

Nessuno, tuttavia, mi sapeva dire qualcosa di più degli Ebrei e dell’Olocausto: tutti e quattro i miei nonni erano troppo piccoli all'epoca e, soprattutto, troppo impegnati a sopravvivere per accorgersi della fine del modo che si stava consumando attorno a loro.

“C’era la guerra e in guerra le persone muoiono”

Ma capivo perfettamente che quella non era solo una guerra.

Riuscii a fare luce sulla vicenda leggendo pochi stralci di “Se questo è un uomo” di Primo Levi: ricordo ancora le pagine sgualcite della vecchia antologia di mia madre dalla quale trassi i passi. Da lì iniziai a formare un mio proprio convincimento, seppure ancora acerbo e incompleto.

Il trascorrere degli anni, la maturità e una decisa e attenta formazione culturale mi hanno permesso di conoscere, di documentarmi, di sapere.

Ho letto qualche testo. Ho ascoltato le testimonianze di qualcuno dei sopravvissuti. Ho compreso che la storia è fatta di tante piccole storie che, di tanto in tanto, si ripetono in un movimento ciclico che è proprio dell’Umanità. Sono venuta a conoscenza della pratica dei segni sul corpo (i numeri marchiati sulle braccia, per intenderci), dello smistamento tra buoni e inutili, degli esperimenti condotti sui gemelli, delle camere a gas, dei forni crematori, delle torture. L’orrore che ho scoperto mi ha annientata.

Ciò che avvenne nei campi di concentramento di tutta Europa è un qualcosa che supera i limiti umani: in quel particolare momento storico una cecità patologica ha consentito la consumazione di crimini inenarrabili a danno dei propri simili.

Quel che oggi è rimasto, accanto alle sparute e sempre più fragili testimonianze dei pochissimi sopravvissuti, sono le parole e i messaggi che esse sono in grado di veicolare. La parola è, infatti, uno tra gli strumenti più efficaci per continuare a tramandare quel che è avvenuto ad Auschwitz, a Birkenau, a Buchenwald (e in ogni altro luogo in cui ha avuto accesso la follia nazista). 
E' indispensabile che le generazioni venture sappiano ogni cosa affinché nessun altro permetta di nuovo al Maligno di rendere l’uomo cieco e muto. Non possiamo permettercelo. L'Umanità non può commettere nuovamente lo stesso errore.


MAI PIU’ SE C’E’ UN DIO

Tre passi,

verso l’abisso,

verso un vento caldo

che non profuma d’estate ma sa di fuoco

e pianti e morte.

 Tre passi,

sulle pietre,

scalzi nella neve,

che di candido non ha più nulla,

dove affondano piccoli cuori

stroncati dalla paura.

Tre passi,

con la morte di fianco,

ad occhi chiusi,

pregando,

mentre il mondo sembra fermo

consumato dall’indifferenza.

 Ho gridato pietà

Un calcio mi ha colpito il petto.

 Ho gridato aiuto,

mi hanno spinto dentro.

Ho gridato:

"Mai più se c’è un Dio!".

Non mi ha sentita nessuno.

 

Ilina Sancineti

 

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