QUANDO L'AMORE SI TRASFORMA IN MORTE: STORIA DI UNA CAPINERA DI GIOVANNI VERGA

Per citare il compianto giornalista sportivo, Maurizio Mosca, il quale, alla vista delle superbe veroniche del calciatore juventino Alessandro Del Piero, esclamava esterrefatto e compiaciuto: «Ah! Come gioca Del Piero», allo stesso modo e con la stessa enfasi scrive quest’oggi la sottoscritta riferendosi al verista siciliano Giovanni Verga: «Ah! Come scrive Giovanni Verga!»

Quale balsamo per lo spirito, quale sublime trastullo per la mente che legge una prosa che s’avvicina alla delicatezza ed alla profondità della poesia.

Storia di una capinera è un racconto triste ed affascinante, dall’intrinseco contenuto morale e dai tratti squisitamente veristi.

È un’opera scritta in epistole che Maria, giovinetta nel fiore della vita, invia all’amica Marianna con la quale ha condiviso il periodo di clausura in convento.

Maria, orfana di madre ed accudita dal padre che nel frattempo ha preso moglie ed ha altri figli, è costretta a pronunciare i voti perché nella Sicilia del 1854 era così che andavano le cose per alcune fanciulle, soprattutto per quelle senza dote. Ella però è amante dell’aria aperta, contempla la natura con occhi vivaci e cuore traboccante d’amore verso Dio che ha donato siffatte bellezze ai mortali. Si diverte con i fratelli, nonostante non condividano lo stesso sangue, vuol bene a tutto ed a tutti, compreso il cane Vigilante e l’uccellino di cui si prende cura, Carino.

Giovanni Verga dipinge un quadro magnifico delle campagne della siciliana Monte Ilice dove la ragazza si è rifugiata assieme alla famiglia per sfuggire al colera che, nel frattempo, imperversa e miete vittima in tutta Catania.

«Che bel bosco! Se tu lo vedessi, Marianna! Un’ombra deliziosa, qualche raggio di sole morente che s’insinua tra le fronde, uno stormire grave e prolungato dei rami più alti, il canto degli uccelli, e poi, di tratto in tratto, silenzio solenne e profondo. Sotto quelle immense volte di rami, fra quelli andirvieni sterminati di viali si avrebbe quasi paura, se la stessa paura non fosse piacevole».

In questo ritaglio di Eden fatto di corse nei prati, di passeggiate, di natura rigogliosa che nulla ha a che vedere con le mura fredde dell’istituto religioso nel quale Maria è consapevole dovrà tornare, la giovane stringe amicizia con la facoltosa famiglia Valentini e s’invaghisce del figlio, Antonio, da tutti chiamato Nino.

La ragazza inizia a provare i primi turbamenti dell’amore che la rendono inquieta e quasi le fanno desiderare la tranquillità e la pace del chiostro. Non li comprende, non può riconoscerli e se ne spaventa: «Marianna sono convinta che a noi, poveri cuori deboli e timidi, tutto cotesto tumulto del mondo, tutte coteste sensazioni potenti, tutti cotesti piaceri facciano un male immenso. Siamo degli umili fiorellini avvezzi alla dolce tutela della stufa, che l’aria libera uccide».

Maria si dispera perché quell’amore che cova in seno è peccato: prega, confessa a Marianna le sue pene, si strugge per quel sentimento che, pur essendo ricambiato, è costretta a soffocare perché lei è promessa al Signore.

Quando giunge il momento di rientrare in convento e prendere definitivamente i voti, la giovane accetta il suo destino senza imporre il proprio volere e, dopo una breve lotta con le sue stesse passioni e notti insonni, consumata dalla febbre per quell’amore perduto che intanto è andato in sposo alla sua sorellastra, muore di dolore.

Lo scritto del Verga per molti versi m’ha ricordato l’opera del Foscolo Ultime lettere di Jacopo Ortis: sebbene lo stile sia completamente differente (ricco, quasi ridondante quello del Foscolo, più semplice, del tutto colloquiale quello del Verga) ho trovato piuttosto assimilabile sia la costruzione letteraria (entrambi i testi sono realizzati in forma di epistole inviate a cari amici) e sia la sorte tristissima dei protagonisti.

Verga scrisse di essersi ispirato per il titolo alla vicenda di un piccolo uccello, la capinera appunto, il quale sebbene accudito dai suoi padroncini alla fine cessa di vivere chiuso in gabbia poiché: «in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete».

Esattamente come fu per la povera e dolcissima Maria.

 Ilina Sancineti

 

 

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