RECENSIONE A CURA DI MARIO GAUDIO - LA TORRE ROSSA DI ILINA SANCINETI

Quest'oggi ho il piacere di riportare una dettagliatissima recensione redatta del critico dott. Mario Gaudio che ha concesso ai miei testi l'onore di figurare tra le pagine del suo importate blog Terre letterarie che, tra l'altro, invito caldamente a visitare.

Si tratta, in particolare, di quella relativa a La Torre rossa, secondo volume della trilogia Il Cammino degli Eletti

Godetevela!



"LA TORRE ROSSA": TRA MAGIA E VIAGGI NEL TEMPO

 di Mario Gaudio

Com’è facilmente deducibile, il secondo libro di una trilogia è quello in grado di imprimere il carattere all’intera opera e di determinare la validità di un percorso creativo che l’autore inizia sulle ali dell’entusiasmo con il primo volume e conclude con i risultati ‒ che possono essere soddisfacenti o meno ‒ del terzo volume.

Nel secondo libro di qualsiasi trilogia si combatte pertanto una battaglia campale contro quella che Italo Calvino definiva «[…] l’angoscia del vuoto che s’apre davanti alla penna»[1] i cui esiti saranno decisivi per le sorti complessive del prodotto letterario.

Ilina Sancineti affronta questa prova con successo, offrendoci ne La torre rossa un solido trait d’union tra le avventure di Decimus e quelle di un volume seriore già in fase di pubblicazione.

La giovane autrice decide di segnare il passaggio tra il primo e il secondo libro della trilogia attraverso un personaggio particolare, Marcus Mèvelo, la cui vicenda esistenziale ‒ fatta di incubi, sovrumani poteri, duro addestramento militare e una graduale e dolorosa presa di coscienza della propria reale identità ‒ costituisce il nerbo dell’intera narrazione.

Ancora una volta, come nel caso del già citato Decimus, ci troviamo dinanzi ad un romanzo politematico che si dipana in una realtà complessa nella quale, per dirla con le parole di un celebre film statunitense, «[…] l’ordine e il caos avvolgono il mondo, [e] spesso uno ha le sembianze dell’altro»[2].


Tutto ciò non deve comunque intimorire il lettore che, a ben vedere, è costantemente guidato dall’autrice verso una meta definita: quella della liberazione dei protagonisti da una antichissima maledizione che grava su di loro da secoli affliggendone e svuotandone le esistenze.

Marcus Mèvelo, Layamon e Logan patiscono l’anatema lanciato nel 1018 contro la loro stirpe dal tremendo inquisitore Achille Portos. Dopo inenarrabili tormenti, quando i conti con il passato sembrano essere ormai saldati, una richiesta di aiuto giunge accorata dall’abisso del tempo e si manifesta nel presente attraverso i deliri di Robert Mèvelo, affermato docente di medicina incautamente rinchiuso in una clinica psichiatrica del Colorado.

Compare dunque il tema dell’alienazione mentale che, nell’opera della Sancineti, assume una valenza del tutto particolare. La letteratura ‒ come del resto la realtà ‒ pullula di matti, ma la follia di Robert non è certo quella artificiosa e giocosa di Orlando che perde il senno nel poema dell’Ariosto, ma ricorda piuttosto quella tetra, enigmatica e terrificante malattia che annienta il pittore Edgar Stark, geniale e sanguinario protagonista di un finissimo romanzo dell’inglese Patrick McGrath intitolato per l’appunto Follia (1996).

Robert Mèvelo è ritenuto folle in quanto incompreso depositario di un messaggio non rientrante nell’ordine abituale delle cose, ma è attraverso la sua figura che Logan può far giungere al cugino e sodale Layamon un disperato grido di soccorso, affinché le vicende del passato possano essere modificate in senso positivo e le vicissitudini future possano essere preservate dagli attacchi del Male.

La richiesta, contemporaneamente sublime e tremenda, che Layamon si sente recapitare è quella di un viaggio nel tempo, di un ritorno al Medioevo per riavviare in maniera corretta i complessi ingranaggi della Storia e ritrovare per sé e per i suoi discendenti quella serenità perduta a causa della ancestrale maledizione.

Ci si imbatte quindi in un tema molto caro alla letteratura di ogni epoca e latitudine: quello di ripercorrere a ritroso i secoli sfidando le leggi della fisica e, soprattutto, cercando di aggirare quell’implacabile paradosso in virtù del quale ogni viaggiatore del presente potrebbe alterare la storia del passato provocando danni irreparabili al futuro.

La Sancineti si collega brillantemente ad un filone artistico che, se nel cinema ha espresso una serie cult solamente negli anni Ottanta del Novecento ‒ mi riferisco ovviamente alla trilogia Ritorno al futuro prodotta da Steven Spielberg ‒, nel contesto letterario dimostra di avere origini ben più remote: non a caso una delle testimonianze più arcaiche di viaggio nel tempo risale al racconto Il mago rimandato, scritto tra il 1330 e il 1335 dal principe spagnolo Don Juan Manuel

Trattandosi nello specifico di un ritorno al passato, non si possono non ricordare velocemente almeno tre ulteriori esperienze letterarie di successo: Gli antenati di Kalimeros del russo Aleksander Veltman (1836), Un americano alla corte di re Artù di Mark Twain (1889) e L’orologio che andava all’indietro dello statunitense Edward Page Mitchell (1881), opera fondamentale dal momento che il ritorno ai secoli precedenti avviene per mezzo di un oggetto meccanico che può essere considerato una sorta di antesignano delle successive macchine del tempo.

Ritornando al nostro romanzo, constatiamo che il passaggio dal presente al Medioevo può avvenire soltanto attraverso un corridoio spaziotemporale conosciuto come “Varco di sangue” che il lettore dal palato raffinato non tarderà ad associare allo spaventoso “maelström” nel quale sprofondano gli sventurati pescatori norvegesi protagonisti del racconto Una discesa nel Maelström (1841) di un gigante della letteratura fantastica del calibro di Edgar Allan Poe (1809-1849).

Un’indagine più approfondita dell’episodio del viaggio nel tempo ci consente addirittura di azzardare un’ipotesi interpretativa di tipo psicologico: nulla vieta infatti di intravedere in questa innaturale azione di ritorno al passato la metafora di un vero e proprio scavo nei meandri dell’anima al fine di raggiungere una agognata catarsi. Ne consegue che i messaggi trasmessi da Logan ai suoi discendenti per mezzo del sogno diventino in realtà immagine degli impulsi del subconscio capaci di trovare fertile terreno espressivo attraverso l’attività onirica e il sonno che, prendendo a prestito una felice espressione di Baudelaire, si configura come «[…] il viaggio avventuroso di tutte le notti» e il «miracolo la cui puntualità ha attenuato il mistero»[3].

Le migrazioni spaziotemporali raccontate dalla Sancineti sono inscindibili dal tema della magia che abbonda nelle pagine de La torre rossa e si palesa in figure dai poteri soprannaturali ‒ vedi i membri della famiglia Mèvelo, il redivivo Rufus e la provvidenziale maga Artemisia ‒, ma anche in vetusti volumi contenenti enigmatiche formule fatte oggetto di studio dal vecchio e saggio fra’ Elia.

Del resto, se da un lato la magia consente di relativizzare lo spazio e il tempo degli eventi narrati, dall’altro permette al volume della nostra autrice di incanalarsi in una fortunata scia letteraria della modernità che annovera capolavori del fantastico quali la trilogia de Il Signore degli anelli di John Ronald Reuel Tolkien (1892-1973) e la saga del celeberrimo maghetto occhialuto Harry Potter della scrittrice inglese J. K. Rowling.

A fare da naturale e significativo scenario alle vicende magiche del libro vi è un misterioso convento situato tra i freddi boschi di una non meglio identificata località del Canada.

Il monastero era già stato al centro di un apocalittico scontro tra le forze del Bene e quelle del Male ampiamente descritto nel primo volume della trilogia ed ora si presenta come l’ideale punto di convergenza tra presente e passato, tra due mondi paralleli, ma perfettamente interconnessi.

L’abbazia, perennemente immersa nella penombra, è silente, disadorna e sacra ed ospita una comunità monastica numerosa, ma quasi invisibile, che attende costantemente al lavoro e alla preghiera. L’unico religioso che si staglia con nitore rispetto ai suoi confratelli è l’anziano fra’ Elia, uomo di profonda cultura e tempra granitica, esperto di arti magiche e profondo conoscitore di antichi e dimenticati testi. Sarà proprio lui ad indicare la giusta formula per aprire il misterioso “Varco di sangue” ed a rassicurare con paterna bontà i suoi ospiti sulla riuscita dell’impresa.

Il silenzio, il profumo dell’incenso e l’umbratile esistenza claustrale ricordano molto da vicino il microcosmo monastico carico di segreti costruito dal compianto Umberto Eco nel suo capolavoro Il nome della rosa del 1980.

Una considerazione a parte merita il tema del dolore che impregna le pagine del romanzo della Sancineti, dacché la maledizione ha stroncato affetti, sradicato convinzioni e provocato terribili deliri e crisi di identità in coloro i quali appartengono alla stirpe dei Mèvelo. Ciononostante, esso è da considerarsi necessario non soltanto per preparare ‒ attraverso i vari espedienti letterari ‒ il desiderato lieto fine, ma in quanto connaturato all’esistenza stessa dell’Uomo.

Il già ricordato Baudelaire rifletteva a proposito del dolore in questi termini: «Ma all’agricoltura di Dio occorre questo. Su una notte di terremoto egli edifica all’uomo piacevoli abitazioni per mille anni. Dal dolore di un bambino egli trae gloriose vendemmie spirituali che altrimenti non avrebbero potuto essere raccolte. Con aratri meno impietosi, il suolo refrattario non sarebbe rimosso. Alla terra, nostro pianeta, all’abitacolo dell’uomo occorre una scossa. Il dolore è necessario ancora di più in quanto è il più potente strumento di Dio; […] è indispensabile ai figli misteriosi della terra!»[4].

Ne consegue che proprio dalla dolorosa necessità si sviluppa quel groviglio di sentimenti positivi che si concretizza in diverse forme di legame: quello amoroso tra Layamon e Laura, quello paterno tra Robert e Marcus Mèvelo e quello amicale tra tutti i personaggi della compagnia riunita presso il monastero di fra’ Elia.

Lo stesso Rufus, la Sentinella Bianca, vittima accidentale del maleficio medievale, benché ormai asservito al potere delle tenebre, mostrerà una inaspettata sensibilità al ricordo della moglie e di suo figlio, concedendo a Layamon una tregua per poter ritornare nel passato e reindirizzare il corso degli eventi.

Überall Ist Mittelalter (“Il Medioevo è dappertutto”) recita il titolo di un famoso libro dello storico tedesco Horst Fuhrmann (1926-2011) ed in effetti l’età di mezzo aleggia nelle pagine del romanzo della Sancineti in tutte le sue peculiarità: se da un lato fanno capolino le immagini buie della superstizione, dei roghi e dell’Inquisizione, dall’altro campeggiano grandiose figurazioni di fortificazioni, armigeri e maestose cattedrali.

Nell’epoca delle lotte, delle persecuzioni, dei movimenti monacali ed ereticali, trova addirittura spazio una sorta di femminismo ante litteram che l’autrice condensa nel personaggio di Artemisia, donna seducente e ribelle fuggita nei boschi dopo un matrimonio forzato ed in seguito evasa da un convento di benedettine in cui era stata segregata dal dispotico pater familias.

Le luci e le ombre del Medioevo hanno il loro significativo peso nell’opera di Ilina Sancineti e rivolgono al lettore il pressante invito a guardare al passato per costruire tempi migliori. Non si tratta ovviamente di riproporre modelli sociali e culturali ormai superati, ma di intravedere nelle vicende dei secoli precedenti un serbatoio di esempi a cui attingere per affrontare problematiche soltanto apparentemente moderne, ma che affliggono da sempre l’intero consorzio umano.

Del resto, cercare di dimenticare ciò che è stato un tempo significa commettere lo stesso disastroso errore di Shih Huang Ti, il Primo Imperatore, colui che fece edificare la possente muraglia cinese ma ordinò, al contempo, la distruzione di tutti i libri scritti prima di lui cercando, come ci suggerisce eminentemente lo scrittore argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), di creare attraverso «la muraglia nello spazio» e «l’incendio [dei libri] nel tempo» delle improbabili ed inutili «barriere magiche destinate ad arrestare la morte»[5].

Un’ultima considerazione riguarda lo stile del romanzo in questione: l’autrice utilizza una prosa piana e scorrevole, mai retorica, godibile alla lettura e priva di fardelli e vanità linguistiche.

Il volume si apre con una lettera, quella indirizzata da Robert Mèvelo a Layamon, e si conclude con un’altra missiva scritta dal contadino Rufus, prigioniero nella Torre Rossa, alla sua lontana moglie.

C’è dunque una evidente circolarità della struttura narrativa che mescola tempi ed esperienze ergendosi quasi a metafora della vita umana.

«Il tuo potere ha origine nella mia paura. Se io non ho paura, tu perdi il potere» disse in giorni remoti Seneca a Nerone. Leggere le vicende del passato consente di demolire i timori e le incertezze del futuro e, in quest’ottica quasi terapeutica, il libro di Ilina Sancineti ricopre un ruolo centrale.

Spezzano Albanese (Spixana), 20/V/2022


[1] Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore, Mondadori, Milano, 2009 (1994).

[2] Act of Valor, 2012, regia di Mike McCoy e Scott Waugh.

[3] Charles Baudelaire, Il poema dell’hashish, in Id, Paradisi artificiali.

[4] Charles Baudelaire, Un mangiatore d’oppio, in Id, Paradisi artificiali.

[5] Cfr. Jorge Luis Borges, Altre inquisizioni, traduzione di Francesco Tentori Montalto, Feltrinelli, Milano, 2005 (1963).

 

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