NARCISO E BOCCADORO - HERMANN HESSE: DE GUSTIBUS
Quasi mai ho delle difficoltà a terminare un testo, anzi, spesso desidero ardentemente giungere in rapidità alle ultime pagine per scoprire se in esse si nasconde la chiave di volta che mi è rimasta oscura all’inizio.
Eppure in questo volume dello svizzero-tedesco Hermann
Hesse, Narciso e Boccadoro, edito da Mondadori, non ho colto ciò che mi sarei aspettata se non una
trama intermittente, talvolta lentissima ed un personaggio, Boccadoro,
completamente distante dal mio modo di concepire il ruolo del protagonista all’interno
di uno schema narrativo. Il classico esempio di opera scritta magistralmente, (perché
il punto è davvero fuori discussione e sarebbe un sacrilegio asserire il contrario!)
ma incapace di trasmettere al lettore emozioni intense e durature.
Sebbene la prima parte con le descrizioni del piccolo
convento di Mariabronn, che tanto mi hanno ricordato le ambientazioni de Il nome
della rosa del compianto e da me amatissimo Umberto Eco, abbia lasciato
decisamente ben sperare, non sono riuscita a trovare un senso a tutto il resto (ad
eccezione di pochi e frammentari passi).
Né il pellegrinare continuo di Boccadoro ha regalato quel guizzo in più, tale da consentirmi di annoverare questa specifica fatica letteraria
di Hesse tra le mie letture preferite.
Mentre sono stata del tutto indifferente al fascino di incorreggibile seduttore di Boccadoro, per contro, ho trovato decisamente interessante la
figura di Narciso, chierico dotto e rigido, che sin dalle prime battute ha seguito la
sua personalissima linea emotiva e di crescita evolvendosi gradualmente.
Hesse descrive per tutto il racconto il biondo Boccadoro come
una sorta di moderno sciupafemmine il quale, sfruttando la propria proverbiale avvenenza, non fa
altro che passare da una vicenda amorosa all’altra, senza mai intrecciare legami veramente duraturi ed affezionarsi a nessuna, se non allo sbadito ricordo della sua defunta madre che proprio Narciso ha rievocato e che l'amico cerca in ogni dove,
persino nell’arte.
È in questo nobilissimo strumento che, in un certo senso, avviene
la sublimazione del giovane: "Vidi che della farsa e della danza macabra della
vita umana qualcosa rimaneva e durava: le opere d’arte […] Collaborare a questo
mi pare un bene e un conforto, perché è quasi un rendere eterno ciò che è
transitorio".
Ecco: è qui che il racconto, a mio modesto, avviso (ricordo che scrivo seguendo semplicemente il mio gusto e non una schematizzazione teorica!) raggiunge il suo apice.
Di particolare pregio sono alcuni dialoghi tra Narciso e Boccadoro (ritornato al convento di Mariabronn dopo aver dato sfogo a tutti i suoi istinti, alla sua sete di libertà, alla sua guerra con se stesso).
Ciò che Narciso rivela all'allievo preferito tra le mura dell’antico istituto religioso rappresenta la parabola perfetta dell’esistenza umana, davvero una piccola perla preziosa in questo scritto: "Noi siamo esseri transitori, noi siamo esseri che divengono, noi siamo possibilità, per noi non c’è perfezione, non c’è l’essere completo. Quando però procediamo dalla potenza all’azione, dalla possibilità all’attuazione, partecipiamo al vero essere, siamo di un grado più simili al perfetto ed al divino".
Degna di nota è anche la lotta che Boccadoro ingaggia con la
peste che, implacabile flagella l’intera Europa portandogli via, sotto gli
occhi impotenti, una delle sue innumerevoli amanti. Il giovane errabondo conosce
il morbo sotto molteplici aspetti: vede uomini e donne ammalarsi e morire, vede
corpi arsi, vede ogni miseria della vita che sta per estinguersi. Impossibile
non cogliere un riferimento (voluto o no, non è dato sapere) all’opera irraggiungibile
del Manzoni.
Per quel che concerne il finale, debbo dire che mi ha lasciata davvero con l’amaro in bocca in quanto il tanto atteso salto di qualità che attendevo fremente sin dall’incipit è mancato. Piuttosto l’autore ripresenta Narciso e Boccadoro ancora come due uomini agli antipodi, ognuno con le proprie intime afflizioni, ognuno rivolto all’appagamento di bisogni opposti.
Mentre il primo è maturato ed ha ottenuto una consolidata posizione, il secondo
continua ad essere un cittadino del mondo, malato ed ormai sfiorito, senza
alcuna meta da raggiungere e senza alcuno scopo concreto se non quello di ricongiungersi
all’immagine ideale ed immaginifica della madre.
Hesse elogia l’affetto e la stima reciproca tra i due, il donarsi
a vicenda, l'affiorare del sentimento taciuto tra loro. Ma ciò non è stato sufficiente per
consentirmi di mutare opinione sul volume.
Ilina Sancineti
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