STORIA DEL SECONDO COGNOME: IL SOLITO "CASO" ITALIANO
Alla luce dei recenti accadimenti italiani era impossibile non pensare (e ne
sorrido amaramente), al personaggio dell’istrionico Checco Zalone che, in una
scenetta del suo lungometraggio Quo Vado, a colloquio con la fantomatica Dottoressa Sironi esclamava, rivolto al collaboratore brizzolato di quest’ultima:«Ho visto che era femmina e ho
detto: è la segretaria!».
Ma rifletto anche sulla vicenda dell’astronauta italiana
Samantha Cristoforetti la quale, prontissima per affrontare la sua seconda
missione spaziale, alla domanda del tutto inopportuna: «A chi lascerà i suoi figli?», ha risposto
caparbiamente ma con tutta la sincerità del mondo:«A loro penserà il mio
compagno».
Da qui, il solito, irragionevole turpiloquio (tra l’altro,
ahimè, quasi tutto al femminile) di critiche, accuse, invettive.
Samantha Cristoforetti in missione |
Fatta questa doverosa e piccata premessa, mi preme osservare
come in questi giorni sia finalmente caduto uno degli stereotipi più radicati e
più maschilisti della nostra tradizione culturale grazie alla decisione
rivoluzionaria della Corte Costituzionale che ha ritenuto illegittime tutte le
norme che prevedono l’automatismo nell’attribuzione del cognome paterno ai
nuovi nati.
Ebbene, ritengo che la sentenza in parola abbia un valore
storico non solamente dal punto di vista giuridico (che evito di esaminare in
questa sede) ma soprattutto da quello democratico.
Per quale ragione?
In verità è molto semplice.
È assodato il fatto che le donne (soprattutto a partire
dagli inizi del Novecento) si siano battute costantemente per vedersi
riconosciuta la parità di genere che, attenzione, non è solo una parità di natura
biologica ma è sopra ogni cosa una parità di diritti democratici.
Sì, perché è espressione democratica tanto il riconoscimento
del diritto di voto alle donne (per il quale ritorniamo all'Italia del lontano 1945), quanto
la libertà di poter decidere di non unirsi in matrimonio con un uomo che ha
violato la sacralità del corpo femminile (ricordo che fino agli anni Sessanta il
matrimonio riparatore aveva valenza giuridica) quanto, ancora, la possibilità
di scegliere se attribuire ad un figlio il proprio cognome.
Vero è che la nostra società per tantissimi versi è ancora
immatura, fortemente retrograda e che la “questione femminile” venga
tristemente alla ribalta con fatti quotidiani di cronaca nera, di sfruttamento,
di discriminazione sui luoghi di lavoro. Tuttavia sono certa che la pronuncia
della Corte Costituzionale rappresenti una conquista non trascurabile e che non
vada per nulla svilita come tantissimi, purtroppo, stanno facendo in queste
ore.
Corte Costituzionale, interno |
Poche attiviste provengono dall’infiammata avanguardia femminista degli anni Settanta mentre la stragrande maggioranza, concentrandosi su problematiche più "serie" (ritenute tali dalla generalità dell’opinione
pubblica) tendono sempre a sminuire certi traguardi, li reputano insufficienti,
insoddisfacenti, addirittura inutili orpelli.
Forse perché hanno avuto il Fato dalla loro e non hanno
vissuto la vera discriminazione sessuale?
Sono convinta invece che le prime vere femministe (tale Simone
De Beauvoir) sarebbero a dir poco entusiaste di questa novità.
Dare la giusta rilevanza al dettato della Corte non vuol
dire certo che le innumerevoli falle del Sistema Italia si siano
misteriosamente smaterializzate nel nulla. Sarebbe un’ipocrisia pensarlo!
Comprendo perfettamente la difficoltà e l’insicurezza che
minano il periodo storico nel quale ci troviamo tutti invischiati, così come
sono consapevole che la democrazia sia ormai un lontano ed astratto baluardo e la
cui concreta attuazione costituisca a dir poco un’utopia per talune categorie di individui.
Penso ai soggetti affetti da disabilità ad esempio, ma anche agli omosessuali,
alle minoranze etnico-linguistiche, ai migranti che, ripetutamente, sono
vittime di soprusi e si vedono negati diritti fondamentali.
Affinché possa parlarsi di vera democrazia e di vera parità
sociale sarebbe opportuno rivolgersi a tutte le categorie che compongono il
tessuto sociale italiano; lo sappiamo, è necessario. Ma questo non implica che
il successo di una di queste categorie debba necessariamente tramutarsi nell’insuccesso
e nella dimenticanza di un’altra.
Questo microscopico passo in avanti per l’universo femminile
è degno di importanza.
La possiede nella misura in cui una donna abbandonata dal
proprio compagno o costretta ad allontanarsi da lui perché violento abbia la
possibilità di attribuire il proprio cognome al suo figlioletto senza dover
necessariamente attendere un legale riconoscimento.
La possiede quando nella genealogia di una famiglia non vi
siano figli maschi (o addirittura non ve ne siano affatto) ed il cognome che
rappresenta l’identità della donna e della sua intera stirpe sia destinato a
perdersi ed a non lasciare traccia alcuna nella storia.
La possiede quando, soprattutto nei difficili contesti della
criminalità, un cognome differente da quello “pesante” del capomafia possa dare
ad un bambino una prospettiva di vita diversa, forse migliore, da quella cui
sarebbe naturalmente destinato.
E sinceramente alcune affermazioni quali: «Un bambino
potrebbe ritrovarsi ad avere addirittura quattro o più cognomi!» sbandierate a
voce grossa quasi fosse una terribile stregoneria, mi fanno sorridere per due
motivi almeno: il primo è che in altre Nazioni il doppio cognome è uno standard
ormai da decenni e nessuno è mai morto per questo ed il secondo è che, come
sempre, ci si sofferma solamente al dato letterale e non alla sostanza della
norma, considerando che non si tratta di un’imposizione giuridica ma, semplicemente, di una libera scelta.
Sono molteplici le considerazioni che potrebbero sviscerarsi
sull’argomento e tutte, davvero tutte, sono di rilievo.
Sarebbe opportuno osservare un po' oltre il nostro pacifico
orticello e guardare con occhi più profondi questo mondo.
La verità è relegata
sempre sul fondo delle cose e mai in superficie.
Ricordatelo.
Ilina Sancineti
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